Giacomo Leopardi a duecento anni dal saggio sopra gli errori dei popoli degli antichi e la sua attualità

Da Lalunaeildrago
di Marilena Cavallo

    Giacomo Leopardi nacque a Recanati (Macerata) nel 1789. Primo figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. La sua prima educazione fu non senza conflitti. Infatti, molti mali e nodi esistenziali si fanno derivare proprio dai primi anni formativi. Ebbe due fratelli (Carlo e Luigi) e una sorella (Paolina). Il padre di Giacomo, conte Monaldo, pubblicò nel 1831 i “Dialoghetti sulle materie correnti”, nel quale vi è espresso il pensiero politico e sociale dello stesso autore.   Nella biblioteca paterna trovò immenso materiale per le sue ricerche. Fra il 1808 e il 1816 pubblicò diversi lavori. Precedentemente si era perfezionato nella conoscenza del latino e aveva appreso da solo il greco, l’ebraico e alcune lingue moderne.   Al 1813, dopo le versioni di Esiodo, degli Idilli di Mosco, del primo libro dell’ “Odissea” eccetera, la “Storia dell’astronomia”. Al 1815 il “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”.   Questo fu un periodo intenso e ricco di riflessioni ma fu anche una stagione di immensa solitudine che lascerà una traccia indelebile nella sua già martoriata coscienza.
  Negli anni successivi strinse amicizia con Pietro Giordani. Tra il 1817 e il 1818 si verificarono diverse situazioni che maggiormente colpirono nel profondo il poeta. Si innamorò, nel dicembre del 1917, della cugina Gertrude Cassi Lazzari. Alla sua partenza, era stata ospite in casa di Monaldo, scrisse i versi de “Il primo amore” e “Diario d’amore”. Anche le canzoni politiche appartengono a questa fase. Ci si riferisce “All’Italia” e “Sopra il Monumento di Dante”.   La maturità del dolore diventa sempre più complessa e più portatrice di pessimismo. Ancora a questa stagione viva di creatività appartengono i primi “pensieri” che verranno racchiusi nello “Zibaldone” (1817 – 1832). I primi Idilli vengono composti fra il 1819 e il 1821. Qualche anno dopo si era distinto, il Leopardi, per “La lettera ai Sigg. compilatori della ‘Biblioteca italiana’ e per il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, rimasti però inediti.   Il gruppo degli Idilli composto in questo periodo abbraccia : “L’Infinito”, “La sera del dì di festa”, “Alla luna”, “Il sogno”, “La vita solitaria”.   Mentre le canzoni “Ad Angelo Mai”, “Nelle nozze della sorella Paolina”, “A un vincitore nel pallone” “Bruto minore”, “Alla primavera o delle favole antiche”, “Ultimo canto di Saffo” risalgono al periodo 1820 – 1822.   Soltanto nel 1822, dopo una tentata fuga, gli venne concesso il permesso di recarsi a Roma ospite dello zio Carlo Antici. Qui fece numerosi e utili incontri. Incontrò Angelo Mai e il filologo G.B. Niebuhr. Si commosse davanti al sepolcro di Tasso. Tornati a Recanati nel 1924 iniziò a scrivere le “Operette morali”. A Roma scrisse “L’inno ai patriarchi”, invece a Recanati, deluso e stanco, scrisse la canzone “Alla sua donna”.   Nel 1825 accettò la proposta dell’editore Stella di curare un’edizione delle opere di Cicerone. Partì, dunque, per Milano e qui conobbe Monti e l’abate Cesari. Nel viaggio di ritorno si fermò a Bologna e fece la conoscenza del conte Carlo Pepoli. Si innamorò della contessa Teresa Carniani Malvezzi. Intanto cominciò il lavoro preparatorio, per l’editore Stella, di un’edizione commentata di Petrarca e compose l’epistolo dal titolo “Al conte Carlo Pepoli”.   Nel 1927, dopo un soggiorno a Recanati, tornò a Bologna per poi fermarsi a Firenze. Qui fece la conoscenza con Vieusseux, Niccolini, Colletta, Canzoni. Intanto l’editore Stella aveva dato alle stampe le “Operette morali” che uscirono contemporaneamente ai “Promessi Sposi” di Manzoni.   A Pisa compose “A Silvia” e “Il Risorgimento”. Dal 1828 al 1830, tornato a Recanati, compose i cosiddetti grandi “Idilli”: “Le Ricordanze”, “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia”.   Recatosi nuovamente a Bologna conobbe Fanny Targioni Tozzetti. Se ne innamorò ardentemente, la poesia “Aspasia” è completamente ispirata da questa donna.   Nel 1832 cominciò a raccogliere tutti suoi “Pensieri” che apparvero postumi nel 1845. Nel 1833, dopo un modesto assegno concessogli dal padre, si stabilì con Antonio Ranieri a Napoli. Nell’aprile del 1836 andò ad abitare in una villa fra Torre del Greco e Torre Annunziata. Fu l’anno del colera. Il Leopardi sempre più debilitato peggiorò e morì il 14 giugno del 1837. A Napoli compose le sue ultime liriche. Si ricordano: “Il tramonto della luna”, “La ginestra”, “Sopra un basso rilievo antico sepolcrale”, eccetera.
  Da questo percorso biografico il dolore costante è un battito che lascia, nel di dentro della storia, un travaglio che assilla e brucia.   Gli Idilli hanno una liricità e un ritmo musicale elevato, ma fra le pieghe delle assonanze, fra i rigurgiti dello sviluppo linguistico vi sono piaghe antiche che oltrepassano qualsiasi movimento semantico o strutturalmente letterario.   Leopardi ha sì legato poesia – musicalità o meglio poesia – liricità col vissuto, con le testimonianze del vissuto ma ha anche saputo estrapolare la crisi della coscienza romantica e portarla ai livelli di una crisi universale. Il pessimismo leopardiano è si un pessimismo, se vogliamo, soggettivo ma ha dei legami con la crisi dell’uomo.   L’attualità di Giacomo Leopardi nel vasto e complesso dibattito che si muove intorno alle poetiche novecentesche ha una rilevanza notevole. La letteratura del Novecento non può fare a meno di riflettere sul suo viaggio stilistico e umano.   Soprattutto, in poesia Leopardi costituisce un momento particolare nel panorama della lirica moderna, dentro la quale lo spazio e la musicalità, il segno del tempo e il dolore umano (pessimismo) non possono essere tenuti in considerazione se non attraverso la sensibilità tragica del male di vivere.   La poesia di Leopardi si muove in una direzione segnata da quel pessimismo cosmico che tradotto in termini meno letterari significa angoscia del presente e triste dominio del dolore antico che domina, comunque, l’esistente.   Il primo punto di riferimento è, dunque, il pessimismo. Ma sarebbe troppo riduttivo rinchiudere la personalità di Leopardi in un simile cerchio.   Bisognerebbe partire da molto lontano per capire lo stato di tensione che travolge la coscienza dell’uomo - Leopardi. È, appunto, l’assillante solitudine che domina il tempo del poeta.   Il suo andare e ritornare da Recanati. Il suo partire verso le isole della speranza e il suo ritornare nel “borgo” imprimono alla vita dello stesso poeta una lacerante malinconia.   Giovanna Bonetti in una Introduzione ai “Canti” e alle “Operette morali” ci dice : “La vita di Giacomo Leopardi è il cammino di una sofferenza, nata in un sostrato profondamente soggettivo e lentamente affiorata in una visione universale e metafisica”.   Recanati e la sua infanzia rappresentano un altro punto di riferimento, che si ancora al costante riemergere del significato della memoria che è anche presagio di morte. In tale contesto la poetica delle “ricordanze” trova la sua voce più sublime e colpisce per la sua densità di toni e per le linee che marcano un tracciato dentro il quale la vita si fa dolore e le illusioni diventano inganno, diventano connubio fra amore e morte e alla fine a vincere la partita dell’ “Infinito” è soltanto la morte.   Nelle opere (“Zibaldone”, “Operette morali, “Canti”) la tradizione poetica italiana è pienamente rispettata. Il ruolo della poesia assume tutta la sua importanza e si muove su due piani, ovvero circola fra la ragione e la finzione e in ultimo è la fantasia che primeggia. Ecco perché la poesia è “scintilla celeste”, è “impulso soprumano” e non è chiaramente “studio d’autori”. In poesia, dice Leopardi, conta il senso del primitivo, conta il senso delle origini attraverso la testimonianza esistenziale, conta il sentimento e non la razionalità. Così egli ha scritto: “Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia”. È emblematico il richiamo alle origini del tempo della poesia.   Natalino Sapegno riflettendo sull’opera di Leopardi ha scritto: “La poesia è natura, e non ragione; è sempre primitiva, e non voluta; corrisponde all’infanzia e non alla maturità dello spirito. La vera poesia è degli antichi, delle civiltà umane nel loro stadio primordiale, fanciullesco, e non dei moderni, solo in quanto si rifanno antichi, ritornano ad essere fanciulli, partecipi dell’ignoranza filosofica e della straordinaria energia fantastica degli antichi”.   Il mito dell’antichità non è, soltanto, uno strumento linguistico o di ricerca poetica. Cammina di pari passo con la disperazione, in Leopardi, e prende consistenza l’idea del suicidio.   Nello “Zibaldone” si legge: “La pazienza della noia in me divenne finalmente affatto eroica. Esempio de’ carcerati, i quali talvolta si sono anche affezionati a quella vita”. E più esplicitamente: “…provava una gioia feroce ma somma nell’idea del suicidio”.   Un simile percorso lo si ascolta nelle “Operette morali”: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilito dei mali della nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremmo; e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno; e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saranno spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora”.   Il viaggio poetico di Leopardi va visto, dunque, attraverso una lettura stratigrafica del suo essere nella vita e nel dolore.   Il suo viaggio è, piuttosto, una corsa: una corsa contro il tempo, una corsa verso la morte.   Se in realtà le “Operette morali” costituiscono un modello meditativo pregno di significati allegorici, graffiati sulla propria pelle e consumati nel proprio sangue, le pagine dello “Zibaldone” custodiscono un peregrinare nella mente dell’età. Gli Idilli, invece, sia i primi che i “grandi” rappresentano la voce più sublime di un poeta che non ha, soltanto, caratterizzato il processo della poetica Ottocentesca e Romantica ma ha lanciato una sfida ai secoli successivi. E qui basterebbe solamente citare il Decadentismo. Quanto Leopardi vive nello sviluppo poetico del Decadentismo?   I temi leopardiani tuttora sono campo di battaglia delle diverse discussioni che muovono i fili dell’odierna letteratura.   La nitidezza della sua parola rivela un gioco psicologico che si disputa fra ragione e natura, fra arido vero e grandi illusioni, fra la civiltà mediocre e prosaica dei moderni e quella poetica ed eroica degli antichi.   Il Timpanaro così si è espresso: in Leopardi “La natura conserva anche di fronte all’uomo civilizzato tutta la sua formidabile forza logoratrice e distruttrice: perciò la lotta dell’uomo contro la natura si configura come lotta disperata, e la distruzione di tutti i miti non dà luogo a una visione ottimistica della realtà, ma d un pessimismo lucido e combattivo”.   In questo ambito rientra la severa malinconia leopardiana. Una malinconia senza pause. Una malinconia che sa confrontarsi col tempo e con le stagioni. Una malinconia fatta di “rimenbranze”, di ritorni al passato.   Il tono nelle “Rimembranze” è molto alto, ma accanto vi si conosce quel dolore pacato che riporta all’infanzia o forse anche al di là dell’infanzia.   È così anche negli altri versi. È così anche nel pianto pungente che troviamo ne “La sera del dì di festa” dove il magico paesaggio lunare è tinto da una solitudine senza rimedi. Un’angoscia simile che coinvolge il destino umano la si vive in quel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Così pure il profondo senso di consapevolezza e l’inganno delle illusioni si lasciano ascoltare nei versi de “La quiete dopo la tempesta”. Il segno dell’illusione, la festa che lascia amarezza, i colori del tramonto, del crepuscolo e della notte attraverso un crescere di delusione sono i motivi dominanti de “Il sabato del villaggio”. La classicità della solitudine caratterizza “Il passero solitario”. Il rimpianto per la vera vita e il confrontarsi del poeta con il passero hanno delle motivazioni umane di estremo valore. La pacata contemplazione vestita ancora di tristezza, arcana tristezza, la si riscontra nell’Idillio “Alla luna”. Così di seguito fino a toccare la passione di “Amore e morte”.   Gli Idilli leopardiani conservano una venatura meta – filosofica, la quale offre delle lacerazioni mai guaribili. Come nella storia di Nerina, dove, anche qui, amore e morte travalicano i confini stessi dell’essere e del tempo per restare canto puro in una vita fatta di desolazione.   L’inquietudine colpisce personaggi e paesaggi e muove i fili della quotidianità. È una inquietudine che rifiuta ogni consolazione, e va a stabilire un più urgente contatto fra il poeta e il mondo. È un’inquietudine che sprigiona nel vuoto anche se non mancheranno le risposte metafisiche.   Leopardi resta un vero “testimone dell’angoscia dell’individuo”. La sua infelicità è, certamente, legata a circostanze varie che hanno come momento base alcuni significativi elementi biografici.   Le sue Opere rispecchiano tutto ciò. Ma è proprio negli Idilli che questo grande poeta moderno conferma la sua elevatura creativa.   “Ma spesso negli Idilli, - si legge in ‘Dizionario della poesia italiana’ di M. Cucchi – in momenti di trasparenza quasi naturale profondissima, di straordinaria leggerezza e semplicità, la parola poetica leopardiana, le cui origini sono in effetti colte e letterarie, sembra testimoniare la caduta o il sospendersi di ogni forza d’attrito o resistenza. Arriva a noi prodigiosamente intatta, ed è come il frutto di un atto autonomo della poesia, in cui il soggetto cessa di pronunciarsi, si è ormai sottratto a se stesso per divenire parte di un’armonia senza tempo, che pure lo trascende ma a cui si affida”.   Leopardi, un grande moderno che ha fatto della storia uno spirito per eroi antichi e del tempo un groviglio di solitudini appese ai tentacoli della notte.   Una poesia senza età che vive per tentare di salvare la civiltà dell’uomo.   Una poesia fuori da ogni retorica che pone al centro il naufragio dell’uomo.

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