Giacomo Leopardi si recò a Roma nel novembre del 1822 con la speranza di trovare il suo posto nel mondo e di ottenere un incarico che gli concedesse la libertà e l'indipendenza economica necessarie alla scrittura. Vi soggiornò sino all'aprile del 1823 senza mai gioire davvero di questa parentesi romana; anzi Roma deluse molto il giovane Poeta, e da tutti i punti di vista: lo delusero le persone, i parenti, i luoghi. I mesi che vi trascorse restarono impressi nella memoria di Leopardi come il periodo più mortificante e penoso della sua esistenza. Che il soggiorno romano non sia stato felice e che questi mesi non abbiano portato alla composizione di grandi Opere sono notizie facilmente reperibili anche sulle pagine dei nostri libri di scuola, ma questo periodo di lontananza da Recanati, il "natio borgo selvaggio" da cui per anni volle scappar via, ha indotto il giovane Leopardi a dedicarsi molto alla corrispondenza con la sua famiglia; e sono proprio le lettere di questo periodo a costituire il volume Leopardi. Questa città che non finisce mai, pubblicato da UTET nel maggio del 2014, con un saggio molto interessante di Emanuele Trevi.
Nietzsche, come ci ricorda Trevi, aveva dichiarato che Leopardi è stato "il più gran prosatore del XIX secolo" e queste pagine, per chi non si è mai dedicato all'epistolario di Leopardi, aiutano ad avvicinarsi al Grande Poeta in maniera nuova, cogliendo tutta la sua umanità e la sua sensibilità attraverso le confidenze, i consigli, le speranze, le delusioni che man mano trasmette ai suoi cari. Confida di non aver tratto nessun piacere dalle Grandezze di Roma, nessuno monumento ha destato la sua curiosità e la sua attenzione; l'unico " piacere", intendendo con esso l'intensa emozione provata, è stato il momento in cui ha visitato la Tomba di Torquato Tasso; il grande cruccio del periodo romano è il non essere stato in grado di relazionarsi con il mondo così come si era augurato; inoltre proprio la mancanza di corrispondenza fra la sua vita interiore e quella esterna aveva inaridito la prima senza che la seconda ne avesse tratto alcuna forma di beneficio o giovamento, come lo stesso Leopardi spiega nello Zibaldone: "Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di viver esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all'esterna. [...] divenuto così inetto all'interno come all'esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita".
Dunque catastrofico il periodo trascorso a Roma, a cui tra l'altro ritornò ancora, qualche anno dopo, nell'ottobre del 1831 in compagnia dell'amico Antonio Ranieri. Ma le cose erano intanto cambiate, Leopardi era divenuto un affermato e riconosciuto Poeta, non era più assalito dai dubbi e dalle angosce del primo soggiorno, né era più Ospite dei suoi parenti come avvenne dieci anni prima, avendo preso una casa in affitto all'angolo fra via Mario dei Fiori e via Condotti; ugualmente questo secondo soggiorno romano venne più volte definito un esilio senza trovare mai l'energia necessaria alla scrittura; di questo periodo rimane però una lettera, contenuta nel volume Leopardi. Questa città che non finisce mai, divenuta assolutamente celebre, quella scritta il 5 dicembre del 1831 indirizzata a Fanny Targioni Tozzetti in cui Leopardi spiega, e qui utilizziamo le parole di Trevi, che "la natura ha destinato gli uomini all'infelicità sotto qualunque regime, e il suo "piccolo cervello" non riesce nemmeno a concepire "una massa felice", composta da "individui infelici".
Non si pensi però che Leopardi soffrisse ovunque, Antonio Tabucchi nel volume Viaggi e altri Viaggi (Feltrinelli) dedica alcune pagine al soggiorno del Poeta nella città di Pisa avvenuto fra l'autunno del 1827 e l'estate del 1828. Nel capitolo "Pisa. Dove Leopardi rinacque" Tabucchi infatti spiega: "Pisa fu cara a Leopardi, e la città gli riservò una calda ospitalità"; tutto lo aveva incantato di Pisa, la schiettezza delle persone, l'ambiente cosmopolita, l'antica università. Come racconta Tabucchi il Poeta "a Pisa sentì il cuore battere di nuovo e le emozioni che tornavano [...] rinacque a nuova vita, quella "vita del cuore", come lui la chiamò, che conduce alle sue composizioni poetiche più mirabili. A Pisa scrisse A Silvia e Il risorgimento, perché fu ben consapevole del proprio risorgere".