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Gian Ruggero Manzoni e l’albero di Maehwa. Intervista all’autore che si muove contro la decadenza delle arti, della politica, della società

Creato il 11 febbraio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

a cura di Iannozzi Giuseppe

1. Nel tuo ultimo romanzo, “L’albero di Maehwa”, si narra di un marchese decaduto il cui nomignolo è Nessuno. Chi è il Nessuno del tuo romanzo? E: chi oggi nella società – che nostro malgrado viviamo sulla pelle – si può bene o male definire un Nessuno?

Gian Ruggero Manzoni e l’albero di Maehwa. Intervista all’autore che si muove contro la decadenza delle arti, della politica, della società
Da un lato il Nessuno di turno è un’Europa ormai priva di una sua identità, in balia della mercificazione, del consumo, di uno pseudo-sogno americano; dall’altro è l’Ulisse di sempre alla ricerca di un senso da dare all’esistere, curioso di scoprire se tale senso nell’uomo ancora alberga e coraggioso nonché furbo al punto di sfidare la sorte come fosse costantemente seduto a un tavolo da gioco. Ma potrebbe anche essere, il mio Nessuno, colui che ha fatto del Nulla la sola possibile dimensione dell’essere, quindi il nichilista, ma di aristocratico lignaggio, alla Junger, per intenderci bene, in cui la sfida poi al Nulla diviene ragione di vita, non certo quello inebetito dal benessere, dall’omologazione e dal continuo bisogno d’avere, perché, in questo secondo caso, non si potrebbe che parlare di un nichilismo d’accatto, privo di dignità e di rispetto, del quale pare che ormai molti siano i figli, in particolare i giovani.

2. Ne “L’albero di Maehwa”, prima della vicenda personale di Nessuno e di Libero, suo grande amico, quasi un fratello, ho avuto come l’impressione che tu abbia voluto delineare la decadenza delle arti, della politica, della società, degli uomini. E’ un ritratto spietato dell’attuale società, non esiste un solo buono che si possa definire tale, tutti sono compromessi nell’avanzare pregiudizi, nel disporre ipocrisie e machiavellismi e nel fregare il prossimo. Caro Gian Ruggero Manzoni, ti chiedo dunque: è l’Italia un paese alla deriva? Se sì, per quali motivi?

Gian Ruggero Manzoni e l’albero di Maehwa. Intervista all’autore che si muove contro la decadenza delle arti, della politica, della società
Caro Giuseppe hai colto pienamente nel segno. Sì, nel mio ultimo romanzo punto l’indice d’accusa contro una società allo sbando in cui… che al potere ci sia la destra o la sinistra… sempre e solo i furbi e gli opportunisti la fanno da padroni, ma tale situazione ormai è estendibile a tutto il pianeta, non solo all’Italia. Non esistono più luoghi ancora vergini, magici, immuni dalla protervia umana. Là dove esiste un uomo votato unicamente alle logiche del potere e del privato interesse domina la corruzione, la violenza finalizzata al mantenimento di una carica e, ovviamente, l’intrigo, il ladrocinio. Sono sempre più convinto che se non succederà veramente un qualcosa di eclatante, forse di catastrofico, tali regole perverse saranno sempre, su questo pianeta, motivo portante dell’esistenza. Infine non se ne può più! La stanchezza sta prendendo il posto del resistere e il fatalismo sta scalzando ogni idealità. Siamo in balia della corrente. Nuotare per opporsi a essa è sfinente, lacerante, sempre più faticoso, forse non ci resta che fare il morto per galleggiare e seguire il flusso, ma mio padre mi diceva che sono sempre gli stronzi a stare a galla, quindi, a questo punto, direi che è quasi meglio affogare, al fine di mantenersi degni, pur di non continuare a galleggiare da morti, amorfi, ignavi, insensibili, demotivati e puzzolenti.

3. Nessuno vive insieme alla madre, fascista dichiarata, quasi ottantenne, in una grande villa del tutto abbandonata, non fosse per l’albero di Maehwa che è l’unica àncora di salvezza del padrone di casa. Un bonsai che ha più di duecento anni e che ha per sé tutto il Giardino d’Inverno: chi o che cosa rappresenta questo alberello?

E’ la continuità di un codice, di un modo elevato, oserei sacro, elegante, esteticamente perfetto di porsi. E’ la memoria vivente di quel codice. E’ la sua ultima incarnazione. E’ la capacità di attraversare il tempo, le vicende umane, l’insensatezza, mantenendosi nell’intoccabilità e nella poesia. E’ il porsi contro alla volgarità e all’imbecillità dilaganti. E’ l’ultimo canto di ciò che si pone contro la mediocrità, o quale alternativa a essa.

4. Il ritratto che tiri fuori è di desolazione, di sepolcri imbiancati, di affaristi senza scrupoli. E’ una immagine lacerante di un microcosmo, di quella di una piccola provincia; eppure questo ritratto accoglie in sé tutti i vizi e i pochi, pochissimi pregi di questa terra dei cachi. Le Arti sono morte, è anche questo il messaggio che ci mandi tramite “L’albero di Maehwa”. Pur con le dovute e necessarie differenziazioni caratteriali, il tuo lavoro mi ha ricordato “Suicidi dovuti” di Aldo Busi. E’ vero in parte, o sono io che ho preso un grosso abbaglio?

Assolutamente no, è vero ciò che dici. Quando Aldo Busi apparve sulla scena letteraria italiana vidi in lui, e altri con me, una possibilità di riscatto. Peccato che anche Aldo si sia votato a certe logiche di mercato e abbia preferito la parte dello showman, del guitto, della checca isterica a quella dell’intellettuale di caratura e di sensibilità, come poi sarebbe ed è. Ciò che sgomenta in questo sistema, e non solo politico o economico, ma, soprattutto, artistico, è come sia facile vendersi, chi per narcisismo, chi per sconsiderata megalomania, chi per saccenteria da teatrino dei pupi, chi per denaro. Più nessuno riesce a tenere una posizione di tipo etico-artistico menzionabile come esempio. Ci si vende per delle briciole, per una misera parvenza di successo o, molte volte, per niente. Ho la sensazione che non esistano più figure trainanti, anzi, temo che tale categoria di uomini sia ormai giunta all’estinzione, a parte un qualche maestro appartato che ancora sfida tale avvilente tendenza. Tutti, chi più o chi meno, hanno dei cadaveri nell’armadio oppure le mani sporche di merda. E chi non si vende in toto, scende comunque a compromessi, trascinandosi o leccando culi a destra e a sinistra. Non so quindi se sia meglio la categoria dei venduti o delle mezze figure. La rabbia, per questo, è sempre in ebollizione, poi monta di brutto, come la marea, e, quando ne ha la possibilità, travolge. A cinquantuno anni sono arrabbiato più di un giovane di ventuno. Forse perché, quest’ultimo, come dicevo sopra, ormai ha deciso di fare il morto e di lasciarsi andare alla corrente. Penso che la rabbia, e la visceralità che essa contiene e poi esprime, sia, da sempre, una delle componenti più alte che inducano a fare arte. Nel momento che la rabbia svanisce, o si attenua, si è nel vero diventati vecchi… non saggi, bada bene, ma vecchi, con tutto ciò che ne comporta.

5. Oggi più di ieri si fa una gran cagnara. Per tutti, o quasi, la Letteratura è morta. Qualcuno si è inventato il New Italian Epic, forse nella speranza di vendere più copie dei propri libri: qualcun altro non disdegna di prostituirsi alle mode passeggere del thriller e del giallo a ogni costo, anche in edizione economica; solo pochissimi si affannano a scrivere con la penna e il calamaio, soppesando ogni singolo pensiero, scegliendo abilmente parole e punteggiatura da usare. Le classifiche dei libri più venduti straripano di giallisti di mezza tacca nonché di narrativa popolare – più che mai stereotipata e tutta uguale, per trama e caratterizzazione dei personaggi: “L’albero di Maehwa” dove si colloca in questo mare di confusione? Che cosa ci insegna o potrebbe insegnarci il tuo romanzo?

Questa ventata Epica è un’ulteriore bufala che ci vogliono raccontare, con la complicità dei grossi media cartacei e anche radio-televisivi, nel tentativo di riciclarsi e di posare da letterati con la elle maiuscola, così come tu dici, sebbene fino a ieri abbiano fatto letteratura nazional-popolare e nulla più. Tutte balle! Tutte balle in un mondo di balle! Il giallo e il noir, come generi, sebbene ancora si vendano d’estate, quali letture da ombrellone, sono in caduta libera dopo aver dominato la scena per quasi quindici anni. Il mercato ormai è saturo, seppure ad ogni angolo, sull’onda lunga di un successo di già svanito, spuntino ancora giallista o pseudo tali, di già epigoni di epigoni. Ormai anche lo scemo del villaggio scrive gialli o thriller, ritagliando dai giornali trafiletti di cronaca nera e incollandoli su cento paginuzze di bassa letteratura. Il giallo, come fattore di moda, ha venduto, però non è riuscito a sfondare, come avrebbe voluto, al fine di raggiungere i “piani alti” dell’intellighenzia. L’accademia e i baroni, in questo caso giustamente, non gliel’hanno permesso, ma non perché l’accademia o i baroni siano meglio dei giallisti, infatti è solo un’altra cricca di boriosi e nulla più, ma per il dominio all’interno delle case editrici e nei media. Il tutto quindi si è risolto, come sempre, in giochini di potere e nulla più. Ora i soliti furbi mascherati da ingenui stanno tentando un’altra strada, cioè quella del romanzo epico o storico, nella speranza di darla da bere, come finora hanno fatto, anche riuscendoci; ma in questo caso intravedo di già il fallimento fin dagli albori (si veda l’ultimo romanzo flop di Lucarelli). In Italia possono parlare di epica i Wu Ming, visti i trascorsi, un certo Cacucci, Scurati e pochissimi altri, tra cui il sottoscritto, che da sempre si è posto con epica e ha scritto d’epica, come poi critici quali Nascimbeni, Arbasino, Antonio De Benedetti, Lagazzi, Cibotto dissero di me in tempi non sospetti. Il mio ultimo romanzo è epica allo stato puro perché narra di cosa significhi scendere in campo, tenere il campo e saper vincere o perdere a seconda del come va la battaglia. Come da sempre dico, uno dei metri con cui si misura il talento è dato dalla capacità di tenuta; qualunque scrittore che si possa dire tale sa questo. Anche coloro che hanno fatto della lirica il loro essere in arte e in vita infine, se coerenti e, soprattutto, se veri, cioè non finti, divengono immagine di una dimensione epica, di una tenuta. “L’Albero di Maehwa” racconta di questo e di come la vita sia letteratura e viceversa. Inutile inventarsi delle etichette quando si è dei finti in vita, perché poi finti lo si è anche in arte. L’etichetta è solo e sempre fumo negli occhi, soprattutto quando uno se l’autocuce di suo. E’ un tirare a campare e nulla più, e i più tirano a campare, non vivono. Oggi quanta poca verità e quanta poca emozione dominano la scena. L’attuale panorama letterario italiano, e non solo, è ricettacolo di mestieranti di basso cabotaggio e niente più, e lo stesso discorso, ahinoi, è applicabile ad ogni disciplina espressiva. Questo è il tempo dei mediocri che possano da geni. O, ancora peggio, che credono di essere dei geni.

6. Il marchese Nessuno ha un amico, Libero. Chi è Libero, e, soprattutto, chi rappresenta, lo sconfitto o il vecchio codice d’onore (di orgoglio)?

Libero è un vecchio combattente, una sorta di anarchico, di Jean Genet, da un lato sconfitto dalla vita dall’altro, così come Nessuno, sostenuto, ancora, da antichi ideali, seppure, a momenti, mischiati ad un’indole truffaldina… ma poi perché non rispondere con eguale moneta ai tanti truffatori di turno? In effetti sia Nessuno che Libero sono due novelli Don Chisciotte, quel tanto picareschi e quel tanto sostenuti dal ricordo di un mondo andato, che ha visto nel secolo scorso gli ultimi grandi bagliori. Si vedano, ad esempio, gli eroici e romantici “Masnadieri” di Schiller Però non sono patetici, non sono due lamentosi, due reduci, perché consapevoli, consci fino in fondo del ruolo che hanno scelto di interpretare sul palcoscenico della vita. Infine sono due irriducibili, e io amo chi mai ha rinnegato le scelte fatte. Nel corso di un’esistenza di certo si può ritornare con la mente a posizioni che si sono calcate in passato, si può riflettere su di esse, si può comprendere di avere anche sbagliato, ma mai, almeno per me, si deve rinnegare ciò che si è fatto. Anche in ciò dimora il codice in un mondo ormai privo di codici. Libero ha vissuto da boxeur tutta la vita, e come tale affronta, orgogliosamente, anche la morte. In effetti, per chi consapevole, il prepararsi alla morte diviene uno degli aspetti fondamentali dell’esistenza. La cosiddetta “sindrome del combattente” è riassumibile in ciò. Per gli antichi guerrieri, e qui l’epica ritorna in ballo, la morte ti doveva sempre cogliere con la spada sguainata, sia in difesa di una causa giusta e sentita, sia, anche, da mercenario, cioè da colui che, comunque, aveva scelto il mestiere delle armi come modo di porsi in vita.

7. Libero, così come hai detto, è tra le altre cose un ex boxeur che nell’età della maturità, tra un traffico non proprio lecito e l’altro, dà ricovero a dei giovani boxeur di belle speranze. Questi sono tutti stranieri, perché gli italiani, ipervitaminici e pantofolai, nella testa di Libero hanno la puzza sotto il naso e non ci pensano proprio a mettere i piedi sul ring. E’ una provocazione devastante: un ministro ha recentemente indicato i giovani come dei “bamboccioni”, tu nel tuo romanzo sottintendi che la gioventù italiana non è neppure più in grado di essere definita “carne da macello”. Smentiscimi, se ci riesci!

Anche alla luce di quello che ho affermato sopra non è facile smentirti. In effetti, avendo modo di frequentare molto i giovani, per il mestiere che faccio, mi trovo di fronte, di solito, a due tipologie di giovani che si rincorrono. La prima riguarda quei ragazzi che, all’ombra dei genitori, cercano di sbarcare il lunario con meno danni possibili, quindi rifugiandosi, alla bisogna, sotto le gonne di mamma o dentro l’auto nuova di papà; la seconda tipologia riguarda quelli che, ben sentendo in loro un malessere sempre più dilagante e un senso di vuoto sempre più dilaniante, vivono quel tanto da sbandati o da eterni sognatori; fatto sta che sia la prima sia la seconda categoria soffrono entrambe della perdita di punti di riferimento forti, avendo, come minimo comune denominatore, infine il sopravvivere, non il vivere appieno. Comunque, negli ultimi anni, proprio a seguito della famosa crisi di valori in atto, si è fatto strada il recupero, da parte di una terza categoria di giovani, che via via sta aumentando, di una sorta di rinata ricerca di spiritualità, questo, socialmente e antropologicamente, è frutto proprio del momento epocale che stiamo vivendo. Crollate le ideologie si supplisce con il vagheggiare una possibilità in ciò che non è materiale ma etereo. Se questo porta a un impegno anche nel sociale ben venga, ma se resta esclusivamente quale risposta personale, singola, a un bisogno, o quale speculazione di tipo filosofico, diventa, anch’essa, una posizione a mio avviso oltremodo sterile. Fatto sta che l’alienazione e il puzzo di resa ci stanno ammorbando. Difficile, quindi, poterti confutare. Triste anche il vedere come tutti rincorrano il famoso quarto d’ora di notorietà per tentare di puntellare un’esistenza che pur si sente vana. Il fatto è che si vivono i massimi sistemi sempre meno con passione e sempre più ci si accontenta di quello che passa il convento. Questo mio ultimo lavoro vede, nelle culture e nelle etnie avanzanti, una possibilità di rinvigorimento in ambito sociale ed emozionale, né più né meno come quando i cosiddetti barbari germanici, o goti, che poi barbari non erano, fecero una flebo di sangue nuovo a una Roma imperiale in caduta libera, riuscendo a rallentarne il declino, ma non la fine.

8. Il destino che si è scelto Libero ricorda quello dei Samurai, quello del marchese Nessuno anche. Possiamo dire che Nessuno e Libero sono facce di una stessa medaglia, entrambi appartenenti a un vecchio codice di onore, di orgoglio, seppur i loro natali siano diversi?

Senza ombra di dubbio. Sì, sono la stessa faccia di una medaglia. Nessuno è un aristocratico decaduto che si è reso conto di non avere più una funzione storica e lo stesso è di Libero, un sottoproletario pasoliniano, anch’esso ormai privo di una ragione di riscatto perché la lotta di classe ormai è andata a puttane. Entrambi sono due avanzi della storia, ma come tutti gli avanzi o risultano indigesti oppure non si sa dove e come smaltirli, e loro non fanno nulla per facilitare tale compito ai restanti padroni del campo, anzi, a mio avviso sono molto bravi nel dare una risposta, seppure delinquenziale o terroristica, quindi estrema, a una società che non li contempla e quindi non li accetta più. Sono due Samurai senza padrone, due Ronin, che ormai vivono solo in funzione della fierezza che a loro dona la spada che portano al fianco.

9. Il tanto procrastinato collasso arriva inesorabile, il marchese è completamente a piedi, è costretto a sbolognare dei falsoni ai russi. Non anticipo altro. La mia domanda è questa: mi sembra d’aver capito che più dei nemici interni, made in Italy, sono assai più pericolosi quelli che vengono dall’estero, in questo caso in russi. Si parla tanto di Camorra e Mafia, pochissimo della malavita che l’Italia accoglie e che viene dalla Russia, dai Balcani, dalla Cina comunista/capitalista, da certe zone dell’Africa, dall’America latina. Com’è possibile che in una società come la nostra, oramai finita nella trappola della globalizzazione, si parli solo della delinquenza nostrana e non di quella proveniente dall’estero?

Domanda complessa, a cui cercherò di rispondere in sintesi. La delinquenza di casa nostra, quella “di panza”, come un tempo la si definiva, cioè quella che conta, ormai è un grumo unico col politico, con le banche, con le finanziarie, quindi è, a tutti gli effetti, elencabile fra i poteri forti, Massoneria e Vaticano compresi, perciò fa al quanto ridere che si possa pensare che i Riina o i Provenzano siano le menti portanti di quella cupola che invece si basa su pilastri ben più saldi, intelligenti e ben più radicati a livello globale. Quei pochi dei nostri malavitosi che vanno in galera non sono che pedine intermedie in un gioco retto dalle grandi holding finanziarie, che via via si rigenerano con sempre nuovi personaggi in testa, di ben altra e pesantecaratura. Oggi sono le mafie dei paesi avanzanti che tengono in mano i traffici cosiddetti da strada. Mafie a mio avviso ben più spietate e sanguinarie di quelle di casa nostra, perché aggressivamente più motivate. Se Cosa Nostra guarda agli appalti, allo smaltimento dei rifiuti, all’immobiliaristica, al riciclare il denaro sporco tramite mezzi o enti definiti legali, la Mafia Russa è invece quella che oggi tiene in mano la prostituzione, il gioco d’azzardo, il “pizzo”, le grosse partite di droga, ovviamente in accordo finanziario con le cosiddette mafie costituitesi in semilegalità. Vale il detto che col malavitoso siciliano, napoletano o pugliese si può anche tentare di parlare, mentre con un tagliagole ucraino ciò è impossibile. La loro, come ho affermato sopra, è la volontà di chi domina la strada e non ancora, in maniera bizantina, il Parlamento della Repubblica.

10. In ultimo, Nessuno ritrova sé stesso grazie all’amore di una giovane ragazza algerina vergine. Non c’è forse troppo sentimento hollywoodiano nella scelta di far innamorare il nobile decaduto di una Venere nera, così tanto bella da essere una dèa scesa in Terra? E’ stata una scelta dettata dai clichè commerciali, per cui se non c’è la storia d’amore impossibile un libro non viene ritenuto tale né dagli editori né dagli eventuali lettori?

No, non è stata una scelta commerciale visto che del commerciale non mi è mai interessato alcunché. A fianco del bonsai mi è piaciuto delineare il profilo di questo femminile di grande statura, migrante, mediterraneo, ricco di principi, di desiderio di emancipazione e di valori anch’essi provenienti da una tradizione forte, in questo caso islamica. Infine Fatma l’algerina è l’icona di quel femminile già esaltato dai nostri sommi poeti del passato, unito alla capacità di vivere con dignità la contemporaneità. Il bonsai e Fatma divengono la medesima idea che ho del bello, quella che mi vede con un piede nel passato e con la volontà di tenere alta la fronte in un futuro. Anche l’algerina è, quindi, a suo modo una combattente. “L’albero di Maehwa” è un romanzo in cui fighter di varie etnie, culture e mistiche si incontrano per infine ruotare tutti attorno a quel piccolo albero. Gli stessi mafiosi russi sono dei combattenti, l’unico a non esserlo è il narratore, quel professor Filippi che tenta di stare al passo con i restanti, ma non ci riesce, metafora a grandi lettere di ciò che sono gli odierni narratori, poeti e intellettuali italiani.

11. Più romanzo d’intrattenimento o un’accusa nei confronti dell’ipocrisia dilagante?

Entrambe le cose. Ho la presunzione che ogni mio romanzo proceda su più piani di scrittura e quindi di lettura. Lo si può leggere come narrazione di uno spaccato del contemporaneo, oppure come grande allegoria, atemporale, di chi si può definire uomo degno e di chi, invece, è indegno, almeno per me. Ne “L’Albero di Maehwa” si trova quel tanto di piacevolezza tipica del romanzo di azione, quel tanto di respiro tipico del romanzo appunto epico, quel tanto di lezione di vita o di riflessione sulla stessa tipica della letteratura che si rispetti. E’ libro scritto con la carne e il sangue, così come è libro da leggersi usando il cervello.

12. A che tipo di pubblico è rivolto “L’albero di Maehwa”?

E’ rivolto a tutti, sia ai palati più ruvidi sia a quelli più fini, proprio per i motivi che ho elencato sopra, cioè procede a più piani, quindi lo si può leggere tranquillamente al fine di trascorrere un po’ di tempo solleticati dalla curiosità del come la storia poi andrà a finire così come, dopo averlo letto, se ne può parlare come finora tu e io abbiamo fatto, mossi da più stimoli, cioè dai tanti spunti di riflessione che in quelle pagine ho tirato in ballo.

13. La tua opinione sullo stato della Letteratura italiana. E’ viva? E’ morta? E se la Letteratura, quella con la “L” maiuscola, è morta davvero, chi sarebbero i responsabili? Perché?

Cercherò di rispondere a questa tua domanda senza dover scrivere un saggio, quindi in breve. Come già ho detto esistono ancora dei maestri che qua e là, da alchimisti, sono alla ricerca della pietra filosofale, ad esempio, fra i noti, quindi fra coloro che ancora hanno distribuzione, perciò visibilità, penso a un Sebastiano Vassalli o a un Gianni Celati, i più, però, bisogna andarli a cercare soprattutto nei cataloghi della media o piccola editoria. Detto questo, attribuisco la maggior colpa della scomparsa di una certa letteratura di livello ai grossi editori. Chi però conosce i flussi arcani esoterici sa che, a volte, il fiume della conoscenza si interra per poi riapparire, riaffiorare, chilometri più a valle. Oggi i mercanti hanno invaso il tempio e la verità scorre sotto i loro piedi, domani, di certo, riapparirà, seppure con altre forme o enunciata da altre voci. Comunque, e lo ribadisco, la colpa di questa crisi, oltre ad attribuirla alla caduta di un’identità culturale forte in atto in Occidente, questa da imputarsi ai nostri governanti, è da attribuirsi alla grossa editoria che, comunque, ai nostri governanti occhieggia, da puttana qual è, o di cui i nostri governanti sono padroni. Perciò, e ancora una volta, è al potere che interessa tenerci nella demenza… alla gestione del potere nelle sue più svariate forse, sia esso politico, religioso, economico o, più semplicemente, intellettuale.

14. Progetti futuri a livello editoriale, sogni nel cassetto?

Entro un anno, massimo un anno e mezzo, darò alle stampe un altro mio romanzo di impianto storico. Non so ancora con quale editore, forse con uno piccolo, se non piccolissimo, tanto per mantenersi elitariamente snob. Questo romanzo parlerà dell’altra faccia del secolo scorso, il Novecento. Se con “La Banda della Croce”, mio penultimo romanzo edito dalla Diabasis, ho dato una lettura della Seconda Guerra Mondiale sfruttando gli occhi di un graduato delle SS, venendo di conseguenza tacciato di nostalgie nazi, il prossimo romanzo che darò alle stampe, già nel cassetto da parecchi anni, leggerà il Secondo Conflitto Mondiale tramite gli occhi di due amici partigiani, un comunista e un anarchico, così che forse verrò questa volta tacciato di nostalgie troppo di sinistra, considerato che comunque uno si muova, in particolare se scomodo, in Italia viene subito tacciato. Un aspetto comunque rimane, sarò sempre un narratore di personaggi estremi, come mi definì Ermanno Cavazzoni, perché è nell’estremo che io raggiungo la totalità. Mentre il sogno che per anni ho avuto si realizzerà entro l’anno. Una mia rivisitazione del Macbeth di Shakespeare verrà messa in scena dalla compagnia Stabile della Regione Molise, con prima italiana, agli inizi di novembre, al Teatro Savoia di Campobasso.

Grazie Gian Ruggero Manzoni. Ti ringrazio per la tua disponibilità, per aver voluto rispondere anche alle domande più scomode senza tirarti indietro. A Te la mia più sincera stima e amicizia.

Gian Ruggero Manzoni – L’albero di Maehwa – Il Filo editore – collana: l’ordito e la trama – 1a ediz. 2008 – 162 pp. – 13 Euro – ISBN e EAN 978-88-6185-790-2


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