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Gianluca Conte intervista Costanza De Cillia, autrice di “Greenwitch Village Ice Tea” (Youcanprint)

Creato il 12 luglio 2012 da Lucianopagano

Gianluca Conte intervista Costanza De Cillia

Ciao Costanza, innanzitutto grazie per la tua disponibilità.

Il tuo libro “Greenwitch Village Ice Tea” è un’opera poetica, dal sapore caustico ma che nasconde un’infinita dolcezza, davanti alla quale non si rimane indifferenti.

1. Partiamo dal titolo. Quasi una formula magica, non fosse altro per il gioco che, legando il verde alla strega, porta alla mente – canzonando un po’ il famoso meridiano e altri soggetti – scenari immaginifici su cui tu tessi le tue trame poetiche. Vorresti parlarci di questa scelta?
Greenwitch Village Ice Tea, che come titolo e come testo avrebbe dovuto, o forse solo potuto, essere accompagnato dalla ricetta per un omonimo cocktail (accetto suggerimenti!), è la presuntuosa confluenza di alcuni degli ingredienti che frullo, shakero e non mescolo assieme quando mi ritrovo a scrivere (attività che purtroppo non è un mero hobby, che purtroppo non è il mestiere che mi dà da vivere, e che purtroppo non “avviene” in dipendenza dalla mia volontà): c’è Tea, al primo posto, un alter ego, un modello, o una mia altra personalità, cioè la regina, il drago infestante e la strega del villaggio verde, dello stesso verde dell’acido, dell’assenzio, della Granny Smith, di San Patrizio e dei quadrifogli che non trovo più, della speranza, dell’invidia e del vomito – scusa la brutalità – del mare prima dell’abisso, e delle foglie in primavera; c’è il gelo dell’anima del amato-odiato che tormenta e non coccola… chi? Forse Tea, forse me, forse l’incasinato e ipertrofico ego narrante… Ti chiedo scusa, mi sa che mi sto prendendo troppe licenze poetiche, anche nelle mie risposte. Il Greenwitch Village Ice Tea è la pozione magica, l’avvelenato calice dai bordi di miele, l’intruglio energetico agli agrumi con l’ingrediente segreto della Coca-cola… il drink di benvenuto che offre, ammiccante, la mia musa, sans merci, al druido riluttante ma ormai preso, che si è perso nella sua foresta dai colori vividi e aspri.

2. “La poesia è morta, ed io ne sto ancora scrivendo”: tutto sommato, in questa raccolta, la poesia non sembra passata a miglior vita, non trovi?
Ti ringrazio! Il fatto che ci sia qualcuno di illuminato che ritiene che non è lo schema metrico a fare la poesia mi rincuora – nei vari siti in cui ho effettuato i miei primi tentativi “pubblici” di scrittura alla luce del sole non pochi sono stati i concorrenti/colti critici/lettori che mi hanno rimproverato la mancanza di forma, il fatto che abbia scritto sull’onda dell’ispirazione senza badare a rime, colore delle vocali e accenti strategici… e mi rendo conto che, a chi non abita nella mia testa, l’eufonia di quanto scrivo possa risultare un impalpabile miraggio. Purtroppo sono metricamente incolta e formalisticamente menefreghista, lo ammetto: anche se sogno il grande successo, scrivo per me stessa e di me stessa, tema che notoriamente è raro appaia di facile comprensione – sono una scrittrice egoista, individualista e spesso random, potrei dare la colpa e il merito a Decadentismo e Surrealismo ma sarebbe una facile via di fuga… poche storie, sono fatta così. E per me e ben prima di me la poesia è morta, perché morte sono le forme perfette, classiche, auliche che, ai tempi in cui la poesia era ancora motivo di stima e fonte di guadagno, facevano dell’autore un vate venerando.

3. I tuoi versi racchiudono degli ossimori logici, penso soprattutto a passaggi come “Sei come una macchina/Per le torture a forma/Di tenero orsacchiotto pacifico”, contenuto nella prima, abbondante lirica Nasdrovie, dove questi contrasti risaltano evidenti. Cosa puoi dirci a riguardo?
Al tempo in cui scrivevo Nasdrovie, quando ancora l’Ice Tea era un bozzolo in divenire, e l’università non aveva ancora inaridito le vene della mia povera musa, pensavo a un angelo crudele, un amato e Nemesi tragico dalla dolcezza di un bambino ingenuo e l’agghiacciante cattiveria di un torturatore, a qualcuno che racchiudesse un cuore di terrificante violenza dietro una facciata placida e adorabile… una matrioska assassina, diciamo, per plagiare Chucky. Nei manga ci sono tantissimi personaggi di questo genere, e mi hanno sempre incantata – il modo in cui sussurrano amabilmente atroci minacce, è così carino e allarmante insieme! Ho sempre ammirato e invidiato gli autori capaci di creare tali magnifiche contraddizioni incarnate in un corpo umano, di solito anche di belle fattezze… e così, non riuscendo a forgiarne uno che fosse del tutto mio, una creazione originale, ho fuso nella mia memoria magmatica e bucherellata tutte le figure che m’ispiravano di più… costruendo, se così si può dire, una sorgente a metà tra la Musa Melpomene, e il mostro di Frankenstein. Un antieroe alla Lucifero, con la dovuta minimizzazione, che potesse rendere l’idea di come in me dieci paradossi compongono una verità (per sempre grazie, Dylan Thomas). I contrasti inconciliabili, gli opposti che si scontrano e si attraggono, la solita vecchia lotta tra ombra e luce, che mai troveranno pace in quanto ciascuna esiste solo perché esiste anche il suo contrario… l’esistenza come contesa, da Eraclito in avanti sempre contemplata dalla Storia dello spirito… tutto questo è il motore e il fulcro della vita, perché negarlo? Desiderando l’armonia, ma essendo ancora abbastanza lucida da accorgermi che essa è irraggiungibile, mi limito a ammirare questi grandi scontri, e resto affascinata quando ricordo che è nell’anima che essi trovano il loro teatro più esaltante. Da qui il mio umile tentativo di ritrarne un atto osservandolo nel cuore di un tenero carnefice che nella realtà, almeno credo, non esiste.

4. I contrasti presenti nella raccolta si scorgono anche nel tuo “giocare” con Amore e Odio, Vita e Morte: è un gioco costruito pazientemente o un flusso di coscienza che impetuosamente ti cattura?
Magari riuscissi a regolare ciò che scrivo! Cesellarlo, dopo averlo composto con cura e attenzione… questo farebbe di me una poetessa – anzi, un poeta, non so perché ma mi suona meglio, più autentico e meno femminista – vera e propria, no? Degna dei dettami classici, capace perfino di scrivere in metrica, e articolare le parole confuse dell’ispirazione in un rigido schema, dall’eleganza d’avorio… Invece sono completamente in balia del dettato del flusso creativo, che all’improvviso mi rapisce e mi costringe a segnarmi precisamente i versi che suggerisce (a questo punto, potrei dire impone)… So che sembra un cliché, quello del creativo invasato che fa da tramite alla tonante voce della Musa, eppure è così che mi succede – ecco spiegato perché non riesco a scrivere a comando, perché ti ho fatto aspettare così tanto per quest’intervista, e perché sono trascorsi mesi dall’ultima volta che sono riuscita a cavarmi fuori una poesia: se non sento questo sussurro mentale, qualsiasi frase digiti o scarabocchi sul primo pezzo di carta che trovo mi suonerà sempre e solo vuoto, pomposo, e ridicolo. E quest’impressione spesso mi travolge e nausea anche quando rileggo i miei pezzi, ragion per cui mi è sempre molto dura correggere e limare con catulliana precisione i funghetti sbocciati in quel labirintico sottobosco che dovrebbe essere una foresta di simboli, ma è solo il caos di rovi della mia creatività ossessiva e sragionata.

5. Diverse liriche – “Rosa carnivora”, “Bambolina senza testa, Bambolina senza cuore”, “Happy new nightmare (la nausea postuma)”, solo per citarne alcune – appaiono immerse in atmosfere surreali che in parte sembrano strizzare l’occhio al beat, in parte al pulp e in parte ancora a pezzi di neoromanticismo come quello evocato dai film di Tim Burton: un universo davvero affascinante quello che riesci a creare in questi versi.
Decisamente troppo buono! Sono felice che ti piaccia, quello che a mente lucida perfino a me che lo amministro pare solo un inferno grottesco alla Hieronimus Bosch… tolta ovviamente la genialità sconvolgente del caso da me citato. A volte riguardandolo quasi m’imbarazza, e di certo non riesco a mostrarlo a cuor leggero agli altri, quest’universo di citazioni distorte, di malinconico cinismo che però non osa rinunciare a sognare le stesse illusioni che tenta di condannare (l’amore, è sempre l’amore il bersaglio degli sputi – e l’oggetto dei sospiri) e principi perversi che dovrebbero ricordareil Joker ma finiscono sempre per evocare la Bella e la Bestia. Si potrebbe dire che predico bene, ma razzolo tremendamente! Insomma, mi lamento di ciò che scrivo eppure se riesco continuo a scriverlo, spero che piaccia a qualcuno ma quando qualcuno lo apprezza rimango sorpresa, dico che me ne vergogno eppure lo pubblico – cos’è che dicevamo, a proposito di ossimori logici e paradossi esistenziali?

6. “Le catene della purezza” (il titolo è geniale!) attira a sé il lettore come un magnete. Il nucleo della lirica e le sensazioni/emozioni che questa lascia tolgono il fiato: ancora una volta ci sono contrasti: da dove nasce questo “delirio” poetico?
Dalla passione ulcerata, tanto per cambiare! Un altro, l’ennesimo, lamento d’amore – bruciava la rabbia, e le lacrime ormai non servivano più a spegnere l’incendio che bruciava il cuore. Chi è stato il folle che ha messo in giro la diceria che amare è bello, che dà luce alla vita e la carica di significato? Bisognava avvisarlo, prima che propagandasse certe assurdità, che l’amore è bello solo quando è ricambiato – che quando non lo è, rende solo più lunga, troppo lunga, la vita, la rende amara e dolorosa, sparge ortiche e semina cocci di vetro sotto i piedi delle vittime che ne sono rimaste contagiate… Certo, l’amore, come ogni altra passione, come la sete di violenza e il desiderio di giustizia, fa vibrare lo spirito ed espandere dolorosamente nel petto il muscolo cardiaco (lo so, è solo una sensazione) – è qualcosa di buono, ma solo nel senso che fa provare qualcosa, e prova il fatto che non si è ancora morti. Eppure spesso fa così male da far desiderare la morte – e la soluzione a questa trappola è riposta solo nella Fortuna cieca, che un giorno, chissà, forse ti farà imbattere in chi ti ricambierà. Ma nulla è scontato, e quest’incertezza tra Ideale e reale, quando non mi prostra nella disperazione più grigia, è garanzia dei miei deliri migliori (giudizio basato sull’intensità di quanto sentito, non sulla qualità di quanto scritto in quegli stati, naturalmente).

7. Carmelo Bene diceva che la vera azione corrosiva, la cosa che avrebbe veramente distrutto tutto era racchiusa nel comico. Il comico da attuare col ghigno, non col sorriso. Ci sono versi, in Greenwitch Village Ice Tea – su tutti quelli di “Liberazione sadica (un bisturi ti spalancherà il cuore)” – che sembrano seguire un filo di “perfida” ironia: c’è in tutto questo, come in altre parti della raccolta sembri ammettere tu stessa, un valore catartico?
Proprio così: c’è la catarsi, perché c’è la vendetta. La mia unica arma contro le forze che mi fanno più male, entità che probabilmente, viste da fuori, sono più astratte che altro, sono le parole – parole che possono farsi acido corrosivo, deturpare la verità perché almeno ai miei occhi appaia meno terrificante, più penosa, meno squallida, più bisognosa di me per poter tornare ad essere bella. É lo sfogo di un mostriciattolo ferito e impotente, contro la grande Musa stupenda e accecante, è l’invidia che si scaglia contro la propria sorgente, cioè l’io narrante, troppo debole per reagire, e contro il proprio oggetto, ovvero l’amata/o, a seconda, troppo magnifica per poter ricambiare l’io narrante. Magari, potrei pensare, si potesse distruggere con quest’assalto comico ciò che mi fa disperare… poi però mi accorgo che se ciò succedesse, non avrei più nulla di cui scrivere. É quasi simbiosi: non poter vivere senza il parassita per cui si vagheggia di uccidersi.

8. La domanda scomoda e antipatica per eccellenza: quanto c’è di autobiografico in questo libro?

Tutto, eccetto il destinatario. Almeno, quando ho scritto le poesie che compongono il Village, l’orsacchiotto che ti sbrana il cuore con il musetto ancora sporco di miele, di cui parlavo, era solo un fantasma, lo sposo infernale di cui ho letto tanto tanto tempo fa… purtroppo, o forse per letteraria fortuna, non conoscevo nella realtà il principe in spontaneo esilio, dal cuore bianco come la neve e scarlatto come il sangue rappreso gocciato su quella neve dal mio, di cuore, traforato da Amore, di cui piagnucolano continuamente i miei versi. Se lui fosse stato reale, non sarei mai riuscita a sognarlo, e quindi a scriverne. O almeno, così credevo allora.



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