L’horror, ancor prima del cinema, è la narrazione della metà oscura, di ciò che molti di noi potremmo essere e di ciò che alcuni di noi sono. È il racconto dell’inenarrabile, di cose a cui non diamo spiegazione, è il punto di contatto tra la realtà sensibile e l’ignoto. Per queste sue caratteristiche, l’horror cattura lo spettatore e lo coinvolge in modo assoluto mettendo in scena le ombre dell’individuo che travalicano ogni differenza culturale. Così, da Oriente ad Occidente, l’horror si muove su binari analoghi servendosi di archetipi comuni come mostri, fantasmi e doppi.
La consapevolezza di avere il controllo e poter interrompere il “gioco” in qualsiasi momento ci insegna che l’orrore può anche essere un’avventura gratificante. Scopriamo così che il perturbante racchiude in sé il doppio, perché, se da una parte ci attrae, dall’altra ci repelle, ed è proprio grazie a questa ambivalenza che possiamo guardare il nostro lato oscuro illudendoci, anche solo per un attimo, che non ci appartenga.
Il racconto horror, in Giappone, scaturisce per buona parte dalle credenze legate alle tradizioni shintoista e buddhista, passa per le pratiche di divulgazione orale e inizia a formalizzarsi tramite il racconto per immagini. Verso la metà del XII secolo, grazie a questo nuovo medium, l’arte del narrare assume inedite sfaccettature, mescolando tematiche diverse e apparentemente contrastanti. In particolare, nello specifico della narrazione orrorifica, il diretto opposto della forza distruttrice di cui l’horror è portatore è la forza generatrice della vitalità sessuale. Sesso e orrore appaiono come lati inscindibili della stessa medaglia, tanto che spesso sono protagonisti dei racconti più atroci. Ed ecco che in Giappone la connessione tra sessualità e orrore è rintracciabile già agli esordi del racconto per immagini a partire dagli emakimono, rotoli di seta illustrati.
Successivamente, il periodo Edo (1603 – 1867) vede lo sviluppo degli ukiyo-e (“dipinti del mondo fluttuante), stampe riccamente colorate e illustrate, soprattutto grazie all’opera di Katsushika Hokusai, oggi considerato molto spesso come un padre delle prime
Probabilmente le muzan-e traggono parte della loro iconografia da quel filone delle rappresentazioni del grottesco nato, sempre in questi stessi anni, in seno al teatro Kabuki. Tra i vari autori che hanno contribuito allo sviluppo delle muzan-e, Honen Tsukioka è forse il più conosciuto ed apprezzato.
Indiretta evoluzione dell’ukiyo-e è il manga, che inizia a diffondersi nelle sue forme attuali nel secondo dopoguerra.
Oggi alcuni mangaka sono tornati a valorizzare l’arte tradizionale, proponendosi come dei “neoclassici” del manga. In particolare, Suehiro Maruo coniuga uno stile retrò a tematiche atroci, rifacendosi in parte al lavoro dello stesso Honen Tsukioka e ottenendo così un risultato straniante e affascinante. All’interno del manga, l’horror fa la sua apparizione ufficiale agli inizi degli anni Sessanta e si pone subito come genere alternativo. A quei tempi, il manga era ancora considerato quasi esclusivamente come un medium per bambini e le tematiche affrontate riflettevano il pubblico di riferimento. L’horror iniziò ad essere proposto unicamente all’interno delle pubblicazioni destinate ai kashihon-ya, ovvero alle biblioteche dedite al noleggio di manga. Uno dei primi e forse più importanti autori a portare l’horror nel manga è Kazuo Umezu, e lo fa proprio per queste pubblicazioni all’epoca considerate minori. Il lavoro di questo autore, che spazia tra atmosfere inquietanti, mostri della tradizione e contaminazioni fantascientifiche (come in The Drifting Classroom) ha contribuito a nutrire l’immaginario orrorifico di cui il manga si è fatto portatore.
Proprio quest’immaginario, ampliandosi nel tempo tramite l’adozione di archetipi occidentali e l’attenzione alle inquietudini scaturite dal vivere quotidiano, ha influenzato e influenza la vasta produzione cinematografica dell’horror giapponese. Anche per quanto riguarda il cinema, l’horror compare all’interno delle prime pellicole nel periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, momento in cui il cinema giapponese si apre a generi più popolari, proponendo storie della tradizione dedicate a fantasmi e
Per parlare di cinema giapponese, quindi, e nello specifico del cinema horror giapponese, non si può non fare un preciso riferimento alla nascita ed all’evoluzione del manga che in Giappone, forse più del cinema, ha rappresentato e rappresenta un fenomeno popolare di enormi proporzioni.
Inoltre, le tematiche orrorifiche rappresentate nel cinema nipponico vengono nutrite e rilanciate proprio da questi medium e dalla conseguente produzione di disegni animati e videogiochi.
Oltre alla trasposizione di manga sul grande schermo si è assistito, in particolare negli anni Ottanta, al fenomeno per cui alcuni disegnatori hanno prestato il loro mestiere al cinema, cimentandosi nella regia e contribuendo ad alimentare le tematiche orrorifiche. Tutto ciò sottolinea la forte connessione che esiste fra queste due forme espressive.
Hideshi Hino fa parte di quei mangaka che hanno saputo apprezzare la capacità espressiva del medium cinematografico al punto da cimentarsi nella regia di alcuni mediometraggi. Hino è considerato uno dei maestri del grottesco anche per aver diretto, sul finire degli anni Ottanta, tre capitoli della discussa serie Guinea Pig. Hino è uno dei tanti autori che, con il loro lavoro, hanno contribuito a nutrire l’immaginario orrorifico del Sol Levante.
L’horror, in Giappone, è molto seguito anche dal pubblico femminile e probabilmente ciò è connesso alla capacità della narrazione orrorifica di incarnare e rappresentare elementi appartenenti alla sfera del rimosso culturale. Non solo evasione dal reale, quindi,
Questo aspetto della narrazione horror, in Giappone, si fa carico della situazione della donna all’interno della società. La donna giapponese è stata per molti secoli, e in larga parte lo è ancora, vittima di un sistema sociale androcentrico, nel quale non è mai avvenuta una vera e propria emancipazione femminile come intesa in Occidente. Il ruolo della donna è ben definito e subordinato alla famiglia e ai figli, ancora oggi sono poche le madri che lavorano e nessuna di loro ha una retribuzione od incarichi alla pari con i colleghi uomini.
In Giappone, il femminile è vissuto con una certa inquietudine perché sempre di più negli ultimi decenni le donne premono per ampliare il proprio ruolo nella società; la maschera sociale che sono costrette a indossare è sempre meno conforme all’oramai mutata coscienza femminile. Tutto ciò viene avvertito dagli uomini come pericolo, come minaccia all’ordine costituito. Aprirsi verso l’alterità femminile significherebbe, per i giapponesi, ridiscutere gran parte dell’assetto socio-culturale che sostiene il proprio paese e questo produrrebbe uno squarcio insanabile nelle maglie dell’identità nazionale.
Nell’horror giapponese, a partire dalla letteratura e dalle leggende popolari, la figura della donna incarna il duplice ruolo di vittima e carnefice. Il primo come a sottolineare la continuità con un passato ancora troppo vicino ed attuale ed a ribadire un’identità sociale e culturale basata sulla supremazia del maschile sul femminile; il secondo come a denunciare secoli di abusi e soprusi nel tentativo di ridiscutere un sistema sociale che oggi più che mai appare anacronistico.
Nelle vesti di vittima, la donna è spesso rappresentata come debole e inferiore, come capro espiatorio su cui l’uomo può infierire per riaffermare una presunta supremazia naturale. È il caso degli slasher e più ancora di quelli che una volta venivano
Il rovescio della medaglia è la donna spesso presentata sotto forma di fantasma rancoroso o, in alcuni rari casi, sotto forma di figura sadica e dominatrice (si pensi ad Audition, 1999, di Takashi Miike) che tenta di saziare la propria sete di vendetta nei confronti del genere maschile facendosi portavoce di un malessere diffuso. La donna viene quindi sovente rappresentata come una letale apparizione fantasmatica, quasi fosse un rigurgito di coscienza che in tutti i modi si tenta di rimuovere dal vivere quotidiano.
Più in generale, l’avvento del manga segna una frattura insanabile tra la generazione dei giovani degli anni Sessanta e le precedenti. Le nuove generazioni si pongono in totale opposizione agli equilibri politici, sociali e culturali esistenti e per questo vengono additate dagli alti vertici della società come individualiste e considerate come il sintomo di una malattia sociale.
La maggior parte dei manga odierni presenta tematiche di vita quotidiana, storie di fantascienza o azione, ma alcuni mostrano in modo esplicito sesso estremo e violenza. Questi tipi di fumetti sono definiti ero-manga w approderanno sul grande schermo sotto forma di anime solo nel 1989, con Urotsukidōji (“il ragazzo che ronza”), di Hideki Takayama.
In Giappone, queste tematiche sono considerate perfettamente accettabili, non subiscono censure, ma sono comunque prodotte e destinate ad un pubblico adulto. Lo scollamento generazionale avvenuto in questa fase risulta talmente forte che i media iniziano a identificare gli esponenti di questa generazione con il termine shinjinrui, ovvero “nuova razza umana”. Di lì a poco si diffonde anche l’etichetta moratorium ningen (“generazione della moratoria”), per indicare giovani che mostrano un totale disinteresse per il mondo adulto e che fanno di tutto per procrastinare ogni assunzione di responsabilità. Questa nuova generazione è guardata con sospetto e timore, perché portatrice di un’ondata egocentrica che rischia di deviare la rotta del buon andamento sociale.
In quegli anni, lo psichiatra Keigo Okonogi riconduceva tutto ciò al dilagare dell’opulenza e del benessere che, dal finire degli anni Sessanta in poi, iniziò ad investire il Giappone. La precarietà e l’eterna adattabilità al nuovo divennero l’unica maniera per sopravvivere in modo non dissimile a ciò che accade oggi, situazione che Zygmunt Bauman definisce vita liquida. Da questo momento
Questo sentimento è ben raccontato in un romanzo di grande successo come Battle Royale (1999) di Kōshun Takami che, prima ancora di divenire un film (con relativo sequel) e un manga, è una delle espressioni che più rappresentano l’incomprensione e il forte scollamento tra vecchio e nuovo.
Un altro esempio di come manga e cinema dialoghino sull’argomento è Suicide Club (2001), pellicola di Shion Sono uscita in concomitanza al manga Jisatsu Circle di Usumaru Furuya (2002), la cui trama riproduce su carta quella del film. L’alienazione delle nuove generazioni e l’incapacità di trovare un proprio posto all’interno di una società percepita dalle stesse come immutabile è una delle recenti sfumature dell’horror giapponese.
Questo accade tanto nel cinema quanto nel manga ed ambedue si influenzano e si contaminano nel tentativo di testimoniare quel sentimento di smarrimento ed emarginazione propri dei “nuovi” giovani. Ancora una volta, l’horror partecipa alla messa in scena del non detto alla mostra del lato morboso del collettivo, di quella parte di sé che ancora non si è pronti ad accettare e ad affrontare apertamente.
Written by Alberto Rossignoli
Fonte
G. Caterini, “Japan Horror. Il cinema dell’orrore giapponese”, Tunué, Latina 2010