Giappone, le luci e le ombre dell’Abenomics: più Keynes o più Friedman?

Creato il 21 maggio 2013 da Keynesblog @keynesblog

L’Abenomics, la dottrina economica del premier giapponese Shinzo Abe, fa discutere il mondo. Il primo trimestre del 2013 ha segnato una crescita (annualizzata) del +3,5% del Pil. Due dati positivi sono evidenti: il primo è il calo della disoccupazione (4,1%) e il secondo è la svalutazione dello Yen (-30% rispetto al dollaro) che aiuta a trainare le esportazioni. Eppure l’indice delle attività composito, un indicatore dello stato di salute dell’economia reale, continua a mostrare segni di debolezza significativi.  Il rischio, paventano molti, è che l’espansione monetaria in atto stia sì ridando fiducia, ma che essa si stia riversando principalmente sui mercati finanziari (la Borsa di Tokyo macina rialzi record ogni giorno) e non sull’economia reale, con il rischio di creare nuove bolle. A tale proposito tuttavia occorre rilevare che i capitali, invece che fluire, stanno fuggendo dal Giappone, attratti dai rialzi dei titoli di stato dei paesi deboli dell’Europa. Mentre negli ultimi giorni si è assistito ad un improvviso rialzo degli interessi sui titoli di stato giapponesi, quelli dei PIIGS sono in calo. Se questo è un vantaggio per noi per i minori interessi, dall’altro è il sintomo di un incipiente massiccio indebitamento con l’estero che, un giorno non troppo lontano, potrebbe chiederci il conto, riproducendo la crisi dei debiti sovrani dalla quale apparentemente sembriamo in lenta guarigione.

Tornando al Giappone,  un editoriale di Paul Krugman, pubblicato sul New York Times, getta un po’ di acqua sul fuoco. Secondo l’economista americano:

Indipendentemente da quello che dicono i governatori delle Banche centrali, la storia dimostra che spesso e volentieri approfittano della prima occasione utile per rientrare nei ranghi. I casi in cui questi sforzi per modificare le aspettative degli investitori hanno avuto successo di solito sono stati accompagnati da drastici cambiamenti di sistema, come quando il presidente Roosevelt fece uscire gli Stati Uniti dal sistema aureo. Ed è qui che entra in gioco l’equivalente morale della mia teoria sull’invasione aliena: gli shock di cui parlavamo prima, in Giappone, hanno modificato la percezione di quello che serve fare, tanto da rendere finalmente credibile l’irresponsabilità, o quanto meno un impegno serio e prolungato per un’inflazione più alta.

A chi si allarma per l’inflazione, Krugman risponde sprezzantemente che un po’ di inflazione è proprio ciò che ci vuole, in Giappone come negli USA. Tuttavia il dubbio rimane: le politiche monetarie sono immediate, sia che abbiano o no effetti. Quelle di spesa pubblica richiedono tempo. Il rischio è che si facciano solo le prime, e ci si accontenti dei risultati che possono portare, mentre le seconde stentino a partire. Alla fine ci si troverebbe con molto Friedman e poco Keynes. Insomma, un conto è mantenere prossimi allo zero i tassi di interesse per aiutare la crescita del settore privato  e comprare titoli di stato per finanziare la spesa pubblica, prevedendo al contempo redditi da lavoro in crescita al pari della produttività e una redistribuzione che aiuti la sostenibilità dei debiti privati, un altro è fare festeggiare le borse in attesa della prossima bolla, gettando soldi freschi di stampa dall’elicottero.

Qualsiasi politica si adotti vi sono sempre dei possibili effetti avversi e una componente di rischio. Tali rischi si moltiplicano a dismisura in un contesto di mercati finanziari liberalizzati e movimenti di capitali incontrollati. Nonostante la crisi del 2008 e le decine che l’hanno preceduta, gran parte delle quali innescatesi proprio sui mercati finanziari, i governi continuano a ignorare i pericoli, poiché spesso “catturati” proprio dagli interessi che si manifestano in quei mercati. E il Giappone, la cui lunga crisi deriva proprio da una bolla, dovrebbe ricordarsene.

Certo, la situazione giapponese è molto migliore di quella Europea, dove l’austerità la fa da padrona. Lo sarà ancora tra 10 anni se Shinzo Abe saprà guardare più a Cambridge che a Chicago.


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