Gigolò per caso è un film che sa di vecchio, che odora di vecchio, come quelle vecchie case ammuffite in una stantia carta da parati floreale. Un film moscio e piatto per un’idea di base simpatica e potenzialmente esplosiva: Fioravante e Murray, amici da una vita, l’uno fioraio e l’altro libraio, entrambi in condizioni economiche precarie, per scongiurare i conti in rosso decidono di confrontarsi col mestiere più antico del mondo. Il primo nel ruolo attivo del gigolò, il secondo nel ruolo passivo (ma strategico) del manager.
Una buona idea che però rimane ai preliminari, auto-ingessandosi in vetusti cliché e stereotipi tipici sia del cinema di Woody Allen sia del più ridicolo pensiero comune sul bravo e focoso amante.
Primo elemento ormai mummificato è il contesto culturale in cui si muove l’intera vicenda: il mondo chassidico-ebraico di barboni parrucconi riccioloni, gente da circoncidere e la filosofia morale che ne segue. Sembrano averlo capito i Cohen, ma Allen ancora no, che i tempi sono cambiati e queste tematiche, seppur di contorno, funzionavano negli anni Settanta. Forse.
Altri elementi vecchi, stravecchi, estinti? Il tango generatore di passione, il cibo da disossare con fare più o meno erotico, il superato mito dell’idraulico/elettricista con invidiabili capacità sotto i boxer. Mi fermo qui, ma potrei andare avanti con esempi di un vintage che non attrae più nessuno, nemmeno il più incallito collezionista di pezzi d’antiquariato.
Evitando la demolizione ad oltranza e a spregio di un film assolutamente da dimenticare sia sul fronte contenutistico che registico, Gigolò per caso è il tipico esempio di come oramai il (buon) vecchio Woody Allen, vero deus ex machina di tutta questa bravata, possa sfoderare ogni tanto un buon film (come Midnight in Paris), poi uno inguardabile (come Blue Jasmine) e poi un altro “di rendita” come questo, e il pubblico, nonostante tutto, spinto da un amore inalterato dai tempi di Manhattan, continuerà imperterrito ad andare a vedere il suo cinema. Vecchio.
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