Gina che lo curò. La compagnia delle parole.

Creato il 08 luglio 2014 da Unarosaverde

Qualche giorno fa è apparso sul Corriere, edizione online, questo articolo, che ho salvato in pdf e archiviato tra i ritagli digitali di giornale, pensando che, fosse ancora viva, mia madre avrebbe preso le forbici, se lo sarebbe tagliato dall’edizione cartacea, avrebbe annotato la data e la fonte, e lo avrebbe prima messo sulla mia scrivania per farmelo leggere e poi infilato in un raccoglitore dove teneva elzeviri e articoli di letteratura, storia e geografia che poi avrebbe usato in una futura lezione.

Il raccoglitore, riorganizzato da me tempo fa, c’è ancora; gli articoli, quando avrò tempo, saranno digitalizzati, prima che gli anni li ingialliscano e li rendano illeggibili. Certi me li ricordo – uno, in particolare, di Gaetano Afeltra sul suono perduto delle campane nel suo paese –  altri non li ho mai letti, ma so o immagino perché mia madre li aveva tenuti. Io proseguo nella tradizione, in modo meno frequente e meno accurato, per problemi di tempo ed ignoranza, e salvo tutto in cartellette del computer, sperando che tra qualche anno siano ancora accessibili.

In ogni caso, torniamo al tema, che con l’età divago e divago sempre più. Io so chi era Gina, me lo ricordo bene. Per questo ho salvato l’articolo.

Lo ricordo perché il nome era quello di una prozia, a me molto cara, che era una creatura allegra e generosa e se il nome di qualcuno che non conosci è lo stesso di qualcuno a cui vuoi bene, ti resta impresso più facilmente nella memoria. Lo so chi era, questa Gina, anche se non l’ho mai vista perché l’ho conosciuta alle scuole medie: tenevamo un quadernino per le poesie. ne scrivevamo sotto dettatura una o due al mese, le analizzavamo, spesso le dovevamo imparare a memoria.

L’aula guardava il fiume e gli alberi sull’argine. Fuori c’erano i cappotti appesi e silenzio nei corridoi perché erano ancora i tempi in cui i ragazzi stavano seduti e quasi sempre zitti ad ascoltare – o a fingere di farlo – l’insegnante che spiegava dalla cattedra. Il mio quaderno delle poesie è qui, sopra la scrivania, anche adesso: rimasto a metà, scritto con la mia grafia poco chiara e ancor meno ordinata, perché era bello: copertina rigida, di cartone, decorata con un frutto, in uno schema ripetitivo di colore: le fragole, le more, l’anguria, i limoni. Ho una decina di questi quaderni sopra la scrivania, alcuni ancora nuovi perché non ne ho mai trovato un uso degno della loro bellezza di quaderno non comune: in mezzo c’è anche, appunto, quello delle poesie della scuola media. Da qualche parte, su una qualche pagina, c’è anche Gina, che curò il rondone ferito, incatramato, mentre Montale ci faceva su una poesia, su questa cosa che il giorno dopo se ne era andato senza nemmeno salutare.

Va tutto bene, qui, non posso dire di essere infelice. Ho tante cose buone e la testa che funziona e il cuore che prova a fare il bravo e certi momenti di risate che fanno stare bene e ancora tanta voglia di scoprire come è fatto il mondo.

Ma ci sono alcune sere, come questa, in cui ho molta voglia di farmi una chiacchierata con mia madre – sarebbe stato bello parlare con lei di Gina e girellare su internet per vedere le fotografie e scoprire insieme che faccia avesse questa signora che tolse il catrame dalle piume di un rondone – ma non posso farlo e allora, per fortuna, arrivano dalla memoria le parole, quelle belle che altri hanno scritto, che hanno lasciato una traccia nei miei giorni, che mi sono state regalate e che fanno da piccole ancore, qua e là, in questa navigazione complicata verso la saggezza.

Ma forse adesso anche io posso cavarmela.


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