Da bambini a tutti è capitato di sentirsi dire: “Questo non è un gioco”. I dissennati intendevano che una certa cosa bisognava farla con serietà. Quanto a me, le cose fatte per gioco erano quelle che di solito mi riuscivano meglio. Mentre le stesse cose, se le facevo con serietà, finivano per annoiarmi. Oggi, il lavoro che faccio cinque giorni alla settimana, trentasei ore alla settimana, duemilacentosessanta minuti alla settimana, è più che noioso. È un lavoro insensato, seviziante e insostenibile. Ma lo devo fare con serietà, con la serietà con cui si fanno i lavori insensati, sevizianti e insostenibili. Scrivere invece mi piace. Scrivere mi ricorda il gioco delle parole crociate (io, per dirla tutta, mi divertivo di più a inventare gli schemi di parole crociate che a risolvere quelli già pronti che trovavo nella Settimana Enigmistica). Così, non mi viene di scrivere con serietà. Se mi mettessi a scrivere con serietà finirei per sentirmi torturato, come in quei duemilacentosessanta agonici minuti in cui tento di fare il mio lavoro insensato, seviziante e insostenibile. Mi viene invece di giocare con le parole, mi viene di trastullarmi con le parole, di sollazzarmi come un ragazzino al cospetto del più favoloso dei giochi bramati. Questo significa che quando da bambini ci intimavano: “Questo non è un gioco”, con la loro scia di immutabile austerità, sparavano una colossale fesseria. Giocate più che potete. Fate questo.
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