Giorgio Caproni, che oggi avrebbe compiuto 100 anni, così definisce la poesia: “una ricerca sin da ragazzo della mia identità, vedere chi sono e attraverso di lei cercare di capire chi sono gli altri. Io penso che il poeta sia un po’ come il minatore: dalla superficie, cioè dall’autobiografia, scava finché non trova un fondo che è comune a tutti gli uomini, scopre gli altri in se stesso.”
Il poeta livornese, nato il 7 gennaio del 1912, da mamma sarta e papà ingegnere, si appassiona subito alle lettere (già a sette anni si dedica allo studio della Divina Commedia).
Ama la ricerca e la sperimentazione. A Genova, dove si trasferisce dal ’22 e che considera la sua vera città, coltiva l’idea di fare il musicista, ma vi rinuncia; inizia a comporre versi, ma non lo soddisfano. Intanto, incontra i grandi nomi della poesia: Montale, Ungaretti, Barbaro. Nel ‘31 prova a inviare i suoi scritti poetici alla rivista genovese Circolo, senza riscontri positivi; non si arrende e due anni dopo vedranno la luce le sue prime due poesie.
La vita da letterato scorre tra incontri, recensioni, collaborazioni con riviste e quotidiani; inizia anche a insegnare. Partecipa alla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale l’editore fiorentino Vallecchi pubblicherà la sua Cronistoria.
Nella capitale (dove vive dal ‘45 al ’73) è in contatto con figure di spicco del mondo culturale: Cassola, Pasolini, Pratolini. Sono gli anni dell’impegno politico e della partecipazione attiva per la ricostruzione della società, così prende parte al 1° Congresso mondiale degli intellettuali per la pace.
Scrive, traduce, pubblica a un ritmo quasi frenetico e con editori vari. Vince due volte il Premio Viareggio con Stanze della funicolare (nel ’52) e Il seme del piangere (nel ’59).
La lezione più bella che Caproni – il poeta contro rumore – abbia potuto lasciarci è quella di non allontanare la poesia dalla vita, ma, consapevoli dell’inganno in essa insito, affidarvisi. È così che questo maestro del ‘900 dà voce e identità a ciò che è mutevole. Ed è così che si è fatto beffa dei critici, a cui non ha permesso di inquadrarlo in un’etichetta. La forza dei suoi versi risiedono proprio nella fragilità contemporanea di cui si sostanziano.
Hanno rubato Dio.
Il cielo è vuoto.
Il ladro non è ancora stato
(non lo sarà mai) arrestato.
(Il furto)
Intanto, l’amore per il capoluogo ligure è corrisposto e ricambiato dalla stessa città: nell’85 riceve la cittadinanza onoraria. Cinque anni dopo si spegnerà a Roma.
Susanna Maria de Candia