Giorgio Carbone e i radical chic
Creato il 01 luglio 2011 da Robomana
Nella storia del critico di Libero, Giorgio Carbone, che recensendo 13 assassini ha scambiato Takashi Miike con Takeshi Kitano (se n'è parlato tanto su Facebook e se ne può trovare una presa per il culo qui), la cosa che mi fa pensare non è tanto l'infinita ignoranza del tizio in questione, o in generale la ridicola pressapocaggine di quel giornale e dei suoi autori, ma - credo - la ragione di tanta ignoranza e di tanta pressapocaggine. E cioè il fatto che il signor Carbone compie la più clamorosa delle topiche perché intento non a parlare del film, a giudicarlo, a raccontarlo, a recensirlo insomma, come uno che fa il suo mestiere dovrebbe fare, ma, come al solito con questa destra affetta da eterno e aggressivo complesso di inferiorità, intento a prendersela con i supposti intellettuali di sinistra e soprattutto a redimere la loro ingenuità. Perché, lo sappiamo, gli intellettuali di sinistra si appassionano ai registi impegnati - ai loro presunti vezzi d'autore che fanno imbestialire i puri appassionati di destra - e così facendo perdono la misura del giudizio, si fanno buggerare allegramente da minchiate spacciate per arte superiore. Gli intellettuali di destra, invece, bontà loro, sono vigili come falchi, stanno sempre attenti al divenire dell'arte e non si affrettano ad allinearsi per scelta di comodo; loro lo sanno come vanno le cose, loro hanno il senso della misura e la consapevolezza di quello che vedono, per cui apprezzano 13 assassini perché - naturalmente seguendo l'incredibile delirio di Carbone - quella roba lì "non è il vero Kitano", e per fortuna, dicono loro, poiché "certi autori sono anche più bravi quando si allontanano dai loro vezzi".
Per Carbone, quindi, il senso del suo mestiere non è parlare bene o male di un film, ma piuttosto smontare le (presunte) tesi degli avversari, che in questo caso sono, come scrive, "i fan di Kitano", delusi secondo lui dalla stranezza del film (e ci credo...), e in altri possono essere una categoria a caso di (presunti) radical chic, da quelli che vanno a vedere Benigni nei palasport a quelli che seguono le dichiarazioni di Dario Fo, da quelli che ancora credono Dalla e De Gregori gli stessi dei tempi di Banana Repubblic a quelli che, poverini, non sapevano che De Andrè era aristocratico e più anarchico che di sinistra.
Loro, invece, lo sanno, loro sanno che è sempre "meglio così". Loro, come sostiene indirettamente in ogni sua frase l'alfiere della critica di destra Mariarosa Mancuso, lo sanno che il pregio nascosto dell'arte di sinistra (che naturalmente quelli di sinistra, pur apprezzando, non sanno scovare) è quello di parlar male proprio dei lettori o degli spettatori di sinistra. Come Libertà di Franzen, che secondo la nostra affezionatissima è un grande romanzo perché "Franzen ha un gran talento, unito al coraggio" - attenzione - "di fare a pezzi i radical chic (essendo lui radical chic, per giunta)". Ovvio, no.
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