Una tipa tosta. E chi ha lavorato con lei al Quotidiano Puglia, lo sa benissimo. Ad indurirla, forse, il desiderio di dimostrare a tanti che la strada se l’è spianata con il suo lavoro. La sua determinazione.
Come “figlia di papà”, Rossana, barese, classe ’58, giura, infatti, che ha dovuto faticare più degli altri suoi colleghi per affermarsi dal punto di vista professionale. Suo padre, Mario Gismondi, che è stato anche il suo più grande maestro, molte volte ha tentato di dissuaderla dall’idea di imboccare un percorso tanto insidioso. E parecchie volte si è messo di traverso. Ma lei non si è mai arresa. E da “buona figlia di papà”, è andata avanti. Diventando nel 1989 giornalista professionista.
Sette mesi fa suo padre è morto. E di quel lutto Rossana porta ancora i segni. Mario le manca molto. Ma sono tanti i momenti in cui si ritrova in qualche modo a “chiacchierare” con lui.
Ecco l’intervista che mi ha concesso.
Rossana quando hai cominciato? E quali sono stati le difficoltà agli inizi?
Sono giornalista pubblicista dal 1978. Prima di tutto non ho mai “deciso”, nel senso che non mi sono svegliata una mattina e, guardandomi allo specchio, mi son detta: “Bene, da oggi faccio la giornalista”. Piuttosto: è stato un percorso naturale, una scelta di vita maturata lentamente e con sempre maggiore consapevolezza, anche perché, come dico spesso non si “fa” il giornalista, piuttosto si “è” giornalisti. Seguire poi le orme di mio padre, beh, non ne ho mai avuto la pretesa. Abbiamo, semplicemente, fatto lo stesso mestiere a livelli e con risultati, evidentemente, molto diversi.
Cosa rispondi a chi ti dice che hai trovato il piatto pronto e che non hai dovuto faticare tanto per affermarti?
Piatto pronto, non faticare tanto? Ah, guarda, solo chi non conosce sulla propria pelle la scuola di Mario Gismondi può sostenere una cosa simile, peraltro abbastanza normale, se così si può dire. Quando papà si rese conto che mi stavo appassionando tentò in tutti i modi di dissuadermi, ma ad un certo punto dovette arrendersi. Tuttavia mi disse, chiaramente, che il mestiere era duro, faticoso e che, se proprio avessi voluto, avrei dovuto cominciare da un gradino più basso rispetto ad altri proprio, perché ero sua figlia. E così fu. Ho iniziato correggendo le bozze di “Olimpico” nella tipografia del Secolo d’Italia. Poi, volle che imparassi come funzionava la “macchina” di un giornale: le spedizioni dei giornali, che allora avvenivano via treno, aereo o auto divennero il mio pane quotidiano. Poi, la ricezione dei pezzi coi dimaphone: dischi dove si registravano le voci dei giornalisti che dettavano il loro articolo. Si doveva sbobinare in cuffia. La segreteria di redazione, organizzativa del lavoro dei colleghi. Intanto collaboravo e scrivevo pezzi. Dopo dieci anni arrivò il professionismo. E la carriera in redazione, tutti i gradini percorsi lentamente e con sacrificio, come sa bene chi ha lavorato con me. Sempre al suo fianco. Gliene sono grata: il più severo dei Maestri, ma anche il migliore che potessi avere. Io come tanti altri colleghi, peraltro.
Qual è stato il tuo primo articolo e che cosa amavi seguire?
Mi sarebbe tanto piaciuto seguire, subito, la politica. Capirai, a Roma, in quegli anni la politica era fata da personaggi come Moro, Berlinguer, Almirante. C’era da rimanerne affascinati. Espressi il desiderio, timidamente, all’allora caporedattore, a cui mio padre mi affidò con la precisa preghiera di “farmi pedalare” come tutti gli altri. Venni sbattuta a seguire una sfilata di moda. Poi arrivò la programmazione Rai. Nasceva Rai tre in quegli anni e ogni mattina si andava a seguire la presentazione di nuove trasmissioni. La politica con l’attività di Governo, Ministeri e tutto quanto potesse interessare quotidiani regionali, come Puglia, Abruzzo, Calabria, che arrivarono con il tempo. E, giustamente, con l’esperienza.
Papà è morto sette mesi fa. Cosa ti manca di lui e come vorresti che fosse ricordato?
Mi mancano le nostre chiacchierate su ogni argomento: confrontarsi con lui era stimolante. Non era facile, certo: aveva un gran carattere. E un grande carisma. Soprattutto, aveva notevole esperienza, c’era sempre da imparare. Con lui si è chiusa una pagina della mia vita professionale, non quella personale, che attiene alla mia sfera affettiva e che non si chiuderà mai, perché papà è custodito gelosamente nel mio cuore. Sai, solo chi non l’ha conosciuto o adesso che è morto ne millanta amicizia e stima, nel ricordarlo usa parole banali, di circostanza. Mi interessa, invece, il ricordo degli innumerevoli amici e allievi o semplici lettori dei suoi corsivetti, dei suoi libri, che, parlandomi di lui usano sempre parole diverse, vere, sincere.
Qual è lo stato del giornalismo in Puglia e a livello nazionale?
Il giornalismo riflette la realtà di cui fa parte: ti pare che in questo momento vada bene? No, e, dunque, perché aspettarsi qualcosa di diverso dal giornalismo? E’ in crisi, certo. Come tutto il resto. A questo si può aggiungere anche il fatto che il giornalismo si sta trasformando, nel senso che sono diverse le gambe – è un’espressione cara al Gis – su cui devono camminare le idee. Un continuo divenire: internet, in primis. La crisi sta facendo e farà strage di giornali cartacei, tv, radio, ma anche l’online non se la passa tanto bene. Saranno in pochi a resistere: i più forti, i più ricchi. Certo, non i più liberi o i più indipendenti. Mi piace pensare che almeno tra i giornalisti non possa valere la formula del più forte, ma quella del migliore. Sai, solo chi ha veramente talento e mestiere nelle mani può reggere l’onda d’urto, che rischia di spazzarci via.
Cinzia Ficco