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Giornalismo online: dal “The New York Times” a “L’Unità” di Antonio Gramsci, vizi e virtù digitali del mestiere (scritturale) più antico del mondo.

Da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

di Rina Brundu.Ogni giornale digitale è discutibile per definizione”. Parafrasando Antonio Gramsci questo è senz’altro un motto che ben si adatta a descrivere una qualsiasi piattaforma elettronica destinata ad ospitare notizie, cultura e informazione. Di fatto con l’avvento dei “quotidiani” (un termine privato di qualsiasi significato nell’era della notizia mordi-e-fuggi) online, il giornale così come lo conoscevamo non esiste più. Non esiste nei contenuti ma non esiste neppure nella forma. Nello specifico, perde la sua struttura, la quale, paradossalmente, diventa elemento fluido capace di trasformarsi e di rinnovarsi velocemente. Finanche di confondere il lettore.Dulcis in fundo, la forma fa equazione con un layoutelettronico la cui qualità estetica dipenderà solo e soltanto dal mood più o meno ispirato del programmatore di turno.

Giornalismo online: dal “The New York Times” a “L’Unità” di Antonio Gramsci, vizi e virtù digitali del mestiere (scritturale) più antico del mondo.
Detto questo, il vero problema di numerosi giornali online, soprattutto in Italia, resta quello dei contenuti. Dico soprattutto in Italia perché è da tempo che si può notare il crescente gap qualitativo tra le nostre testate più note e le testate internazionali più prestigiose. Il metro di paragone è il The New York Times, del quale tutto si può dire tranne che non abbia mantenuto in Rete l’approccio professionale che ci si aspetta dal miglior giornalismo. Tra gli elementi che ben raccontano questo orientamento, vi sono lo spazio fondamentalmente “dimesso” che ancora occupano gli occhielli pubblicitari (a dispetto delle difficoltà economiche con cui purtroppo devono convivere questo tipo di testate), la qualità degli articoli, la prioritizzazione della notizia, finanche la classifica dei più letti o dei più commentati. Elementi, questi ultimi, che implicitamente parlano del pubblico di lettori e dunque del giornale che li ospita. Inutile dire che il “racconto” che emerge da una analisi dei layoutdelle testate italiche più qualificate è piuttosto lugubre al confronto, provare per credere! Fanno tristezza, più di ogni altra cosa,  quelle home-pages a giorni interamente svendute al potente committente pubblicitario di turno, la qualità scritturale approssimativa e privata di qualsiasi elemento innovativo e/o personalizzante uno stile, l’editing inesistente, il copia e incolla da Wikipedia, la proprietà degli articoli scadente, la prioritizzazione della notizia pensata specialmente per incontrare il gusto di un pubblico di “bocca buona”, nazional-popolare e culturalmente apatico.

Di tanto in tanto è quindi piacevole imbattersi in qualcosa di diverso anche sulle nostre sacre sponde. È questo il caso, a mio parere, del sito de L’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci nel 1924 e attualmente diretto da Claudio Sardo. Nello specifico, mi piace il suo layout di basso profilo, ordinato, raramente soffocato dagli occhielli pubblicitari, teso a narrare l’immutabile linea editoriale, finanche la sua storia, laddove il volto di Berlinguer in tutte le salse non manca mai di salutare il lettore assiduo. E accorto. A ben guardare, L’Unità-online racconta innanzitutto una sinistra-storica digitalizzata e di ritorno che nel suo esistere contribuisce a regalarci qualche certezza in più dentro il mare-magnum spersonalizzante della Rete. Certo, neppure questa gloriosa testata sembrerebbe completamente capace di fuggire il più atroce segno dei tempi, e vedere in prima quel “reminder” a L’Unità su Facebook (un po’ come se la filosofia di Gramsci fosse costretta a bussare alla porta di Mark Zuckerberg per trovare asilo politico e dunque ad indossarne la pur mitica felpa!) fa un certo male al cuore. Then again, nel dubbio “elettronico” (?) ho premuto I LIKE IT: speriamo che il mio conterraneo di Ales non debba rivoltarsi nella tomba!

Featured images, il logo de L’Unità e del The New York Times.


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