Bene, anche se sembra oramai un rito che rischia di passare inosservato, comunque bene... ma, lo ricordo ai distratti, l'antisemitismo non è morto e oggi si presenta sotto la maschera di virtuosa condanna di Israele.
A ricordarcelo, a parte qualche testa mozzata di maiale recapitata alla Sinagoga di Roma e dintorni, c'è oggi sul CdS un articolo
di Bernard-Henri Lévy che integralmente qui riportiamo.
È lo scandalo della settimana.
E stranamente nessuno ne parla. Da lungo tempo l’Unesco aveva
programmato, a Parigi, una mostra intitolata: «Le genti, il Libro, la Terra: 3.500 anni di rapporto fra il popolo ebraico e la Terra santa». La mostra era patrocinata dal Centro Simon Wiesenthal e da un certo numero di Stati, fra i quali il Canada. Aveva ricevuto l’appoggio di luminari dell’archeologia e si conformava a tutte le regole scientifiche richieste.
Ebbene, a meno di una settimana dall’inaugurazione, ecco che viene brutalmente sospesa, per non dire annullata, con un semplice comunicato diramato dalla direzione dell’agenzia delle Nazioni Unite ottemperando a una lettera di ventidue Paesi arabi «preoccupati» — sic — dal «possibile impatto negativo» dell’evento sul «processo di pace e i negoziati in corso nel Medio Oriente».
Sorvoliamo sull’insulto rivolto al prestigioso Centro Simon Wiesenthal, che si vede trasformato in un covo di alimentatori di discordia e di sabotatori di pace. Sorvoliamo sul ragionamento grottesco secondo cui una mostra colta, che mobilita eruditi del mondo intero, sarebbe, appena c’è di mezzo Israele, un ostacolo al «negoziato» e alla «pace». E non ci attardiamo nemmeno sulla miopia di una Lega araba che, di fronte alla minaccia nucleare iraniana, alla glaciazione poco negoziata della rivoluzione egiziana, alla repressione non proprio pacifica delle velleità democratiche nel Bahrein o negli Emirati e, last but not least , al massacro di 130 mila siriani da parte del gentile Bashar al-Assad, vede una sola minaccia seria incombere sulla regione: Israele, sempre Israele, il piccolo Israele, non appena questo Paese ha la pretesa di riflettere, come tutti i popoli del mondo, sulla propria storia, i temi fondatori o il tempo immemorabile della propria presenza sulla terra in cui è insediato.
La cosa più drammatica, in questa vicenda, è l’immagine penosa che di se stessa dà l’agenzia prostrandosi — non si può dire altrimenti — davanti al diktat. È la sensazione di essere tornati ai tempi in cui, quasi quarant’anni fa, la stessa agenzia vedeva nel sionismo una forma di razzismo: all’epoca, almeno le grandi coscienze, Sartre e Foucault per primi, protestarono contro questa «ignominia»! Mentre oggi nessuno, ancora una volta, sembra preoccuparsene, né quasi accorgersene! È il modo in cui un vero dibattito, che ha l’età della filosofia e che gli antichi greci alimentavano con bei «paradossi» (paradosso di Epicarmo, poi di Aristotele: cosa resta di una «identità», cosa fa sì che possiamo continuare a dire «i» greci, o «gli» ebrei, allorché il passare del tempo, la successione delle generazioni, la scomparsa dei primi portatori del nome rendono gli insiemi di oggi e di ieri radicalmente diversi) sta per essere deviato da un manipolo di finti storici, oggi rafforzato, con la sua vergognosa palinodia, dalla grande istituzione che, in linea di principio, è l’Unesco («Non è mai esistito un Tempio a Gerusalemme», diceva l’uno; «Il popolo ebraico è un’invenzione recente», scriveva l’altro; «Forse esiste», asseriva il terzo, «ma come popolo violento, originariamente crudele, per non dire capace di genocidio...». Ebbene, la decisione dell’Unesco, che essa lo voglia o meno, segue la scia di questo torrente di idiozie negazioniste che da un certo numero di anni ci toccava subire sulle colonne dei giornali e nei programmi televisivi).
Quello che è drammatico, ancora, è la quasi certezza di provocare, scrivendo queste righe, uno scatenamento di commenti in cui, come al solito, si invertiranno i ruoli di chi insulta e di chi è insultato, e quest’ultimo pagherà per le provocazioni incendiarie del primo: «Ne abbiamo abbastanza di Israele! Ne abbiamo abbastanza del sionismo! Ce ne infischiamo di sapere chi, in questa disputa, ha torto o ha ragione: solo, ne abbiamo abbastanza e della disputa e degli ebrei che ne sono l’oggetto».
Quello che è drammatico, infine, è la convinzione che la pace, la vera pace, cioè la riconciliazione tanto attesa fra i due popoli fratelli che si disputano la stessa terra, non passa attraverso un duplice riconoscimento, un duplice ingresso nelle ragioni dell’altro e delle sue narrazioni costitutive, ma attraverso l’intolleranza, il rifiuto, la demonizzazione, la negazione storica e metafisica cui oggi incita l’Unesco «Durbanizzata».
Un’ultima parola per rinfrescare la memoria degli autori dell’indegno comunicato. Risaliamo a cinque anni fa, quando ci fu l’elezione del nuovo direttore dell’Unesco. Un prevaricatore egiziano, Faruk Hosni, fedele del dittatore Mubarak, era in grande vantaggio. Ma grazie in gran parte a una campagna lanciata per informare l’opinione pubblica da Elie Wiesel, Claude Lanzmann e il sottoscritto, Irina Bokova fu spinta nella corsa e, in mancanza di alternative, vinse.
C’è un legame fra questi eventi? La signora Bokova soffrirebbe forse del complesso del signor Perrichon? La presenza di una personalità come Elie Wiesel nel comitato che patrocinava la mostra programmata dall’Unesco era, come nella commedia di Eugène Labiche, più di quanto potesse sopportare? O ha semplicemente ingannato la sua gente e dissimulato, fin dall’inizio, la verità di un personaggio per cui l’amore nei confronti della cultura e della pace era anch’esso una commedia? O si tratta di un malinteso? In questo caso, lo si dica. E presto.
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