Come dite? Veramente a voi non è mai capitato?
Suvvia un po’ di solidarietà!
Ma andiamo con ordine.
Ieri era mercoledì, giorno di frequentazione marmocchia della scuolina. Il mercoledì che per me inizia alle 14 quando il Ninnatore mi riconsegna la nana e va a lavoro. Il tempo di capire che no, non tornerà, e lei inizia ad urlare, con tanto di mano tesa, sguardo disperato e lacrime a fontanella: “Vojio j mmmio papiiiii”.
Paonazza in viso continua la sceneggiata iniziando ad elencare le persone che vorrebbe accanto al posto della sottoscritta: praticamente tutti quelli che conosciamo (anche solo di vista) compreso l’omino delle giostre, il benzinaio con l’accento slavo, Checco Zalone e ovviamente tutto il nostro parentado, risalendo l’albero genealogico fino ai nostri avi con la clava.
Piangendo si addormenta.
Ok, ne approfitterò per fare un po’ di spesa: oggi non abbiamo impegni e possiamo prendercela comoda.
Il trasferimento seggiolino-passeggino senza svegliarla non è roba da cuori pavidi, ma un’operazione delicata che richiede esperienza, sangue freddo e la giusta congiunzione astrale.
Si scende dall’auto senza spegnere né motore né radio; si prepara il passeggino facendo attenzione alla reclinazione dello schienale: un solo mm potrebbe fare la differenza e mandare all’aria il piano; si slacciano le cinture del seggiolino con la sola imposizione del pensiero; con un colpo di reni si spegne motore e radio, continuando a cantare la canzone trasmessa, mixandola con un movimento ondulator-sussultorio a riprodurre il moto dell’auto; si adagia la Marmocchia sul passeggino e si parte a razzo trovando il coraggio di guardare se ancora dorme soltanto parecchi metri più in là.
Ore 15.30, spesa fatta, nana sveglia ma ancora vagamente restia nei miei confronti. Per riguadagnarmi il titolo di “genitore adorato” mi gioco la carta “Parchetto”. Prima dobbiamo solo portare un paio di cose in lavanderia, ma abbiamo tutto il tempo e possiamo fare con calma.
“Eh già”, direbbe Vasco. “Eh zà”, farebbe eco la Marmocchia.
Ore 16.15 siamo ancora in lavanderia, sequestrate dalla titolare, dalla figlia e dal figlio della figlia, coetaneo della nana e di cui ora conosciamo ogni singolo respiro dalla nascita ai giorni nostri.
Avete presente quelle persone che parlano senza mai fare pausa per prendere fiato? Che tu sei lì che ti dici “non può parlare per sempre” e ti aspetti stramazzi al suolo alla fine della prossima frase perché oggettivamente non può avere tanta aria nei polmoni? E invece non stramazzano mai.
Ipnotizzate, ci mettiamo ben tre quarti d’ora prima di riuscire a liberarci dalla prigionia.
Saliamo in macchina mentre la lavandaia madre ci sta ancora parlando. La temperatura nell’abitacolo sfiora probabilmente i 40 gradi, ma aprire i finestrini vorrebbe dire ritrovarsela dentro che ancora racconta di “quella volta che…“. E allora partiamo serrate nell’auto, rischiando di liquefarci, ma ne vale la pena.
La nana reclama il parchetto, io una vita più facile. E corriamo, corriamo, verso la parte “con calma” di questo pomeriggio.
Traffico, lavori in corso, bambini che escono da scuola, vigili frustrati. Arriviamo che sono quasi le 17. Ma va bene, ora si fa sul serio, si vive la miglior parte della giornata, quella in cui si gioca, si ride e la Marmocchia mi perdona l’abbandono alla scuolina.
Ed è qui che incontriamo Adele e Teresa. Sorda la prima, cammina tranquilla dall’altra parte del marciapiede. Afona l’altra, si sta sgolando per chiamarla e nel tentativo di raggiungerla ci manca poco che finisca sotto una macchina. Preoccupata in volto, un po’ zoppicante e con in mano un oggetto che lì per lì non riconosco. Ma dall’aria sconvolta sarà certo qualcosa di vitale importanza.
E allora che faccio? Mi metto ad urlare “Adeeeele” pure io, e grido, grido, ma lei non mi sente. E allora corro, Marmocchia da una parte, borsa, chiavi e bambola dall’altra, finchè non la raggiungo e la riaccompagno da Teresa, l’afona, che poi tanto afona non sembra più. E inizia a raccontare. E racconta, e racconta.
Racconta di quel nipote scavezzacollo a cui ha regalato un motorino e lui l’ha distrutto in meno di una settimana. E racconta di quando era giovane, di come era tutto diverso. Della guerra, della fame, di loro che non avevano niente, ma non si lamentavano mai. Mica come noi che abbiamo tutto e ci lamentiamo sempre. E inizia a parlare anche Adele, la sorda, nonna pure lei. Bisnonna veramente, perché a breve suo nipote avrà un bambino. Una femminuccia, a dirla tutta e ringraziando il cielo, che si sa sono più affezionate alla famiglia.
Adele e Teresa, amiche da sempre. Che hanno cresciuto i figli, visto morire i mariti, si sono occupate dei nipoti accettando, pur non capendo, questa nuova generazione così diversa dalla loro.
Sempre amiche, sempre insieme.
“Che c’è? Che volevi? Perché mi stavi chiamando?“.
“Mboh, e chi se lo ricorda più?”, risponde l’altra.
Solo oro mi rendo conto che il misterioso oggetto stretto tra le mani di Adele altri non è che una piantina di basilico. E la guardo, e poi guardo Teresa e poi ancora la Marmocchia, che in tutto ciò osserva estasiata la nuova cricca a cui ci siamo unite.
“Ah, ecco cosa, volevo darti questa!”.
E allora la parte “con calma” di questa giornata te la vivi così: con una risata che distende, che scalda e che ti fa pensare. Che forse le cose per cui vale la pena di correre sono anche queste. Un gesto di amicizia, di solidarietà. Per dire “Io ci sono, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno. Fosse anche una piantina di basilico. Perchè tu per me sei importante e te lo dimostro anche così!”.
E la Marmocchia forse non ha capito bene come sia successo, ma all’improvviso non ce l’aveva più con me. E ad essere sinceri di questa “tipica giornata” non ci ho capito granché nemmeno io. Eppure ieri sera mi sono sentita inspiegabilmente bene. Stanca ma leggera e con la consapevolezza che di queste “tipiche giornate” ce ne vorrebbero di più!