Magazine Poesie

Giovanna Frene - Tecnica di sopravvivenza per l'Occidente che affonda

Da Ellisse

Giovanna Frene - Tecnica di sopravvivenza per l'Occidente che affondGiovanna Frene - Tecnica di sopravvivenza per l'Occidente che affonda - Arcipelago Itaca 2015a - Arcipelago Itaca 2015 (con sei immagini di Orlando Myxx)

Forse la Storia non insegna nulla, come diceva Manzoni probabilmente  scopiazzando Hegel (il quale però, pur meditabondo alla vista di Napoleone che sfilava sotto le sue finestre dopo la battaglia di Jena, era sicuro che essa non finisse con lui, né quel giorno). Se non insegna nulla,  certo da un punto di vista letterario è una delle sedi d'elezione del dramma e una metafora capitale, un "luogo" (ed è per questo che parlo di metafora, poi vedremo) di sostituzione / sovrapposizione  non solo del passato con l'oggi, ma anche dei morti con i vivi e dell'intrinseca unicità delle loro vicende, che sono proiettate su di noi con i loro rischi, rinnovati e ineludibili, e i loro dolori, destinati a ripetersi. E inoltre, un luogo "scenico", da sempre in letteratura, su cui risaltano drammaticamente gli eterni caratteri psichici e affettivi di uomini e donne, e vi si attualizzano. Ed  anche un pre-testo, nel senso primevo del termine, un canovaccio su cui imbastire un articolato arazzo in cui la figura umana è dominante. Inutile fare esempi tanto classici quanto arcinoti. Questo ultimo libro di Giovanna Frene è uno dei muri portanti di un più complesso edificio che va costruendo nel tempo e di cui la Storia, collettiva, famigliare, individuale è elemento centrale e che porterà, secondo i progetti dell'autrice, a una seguente opera, e forse conclusiva di un ciclo, dal titolo Eredità ed estinzione. Come avverte nella nota che chiude il volume, per Frene la Storia è "come allegoria". Per quanto dichiari modestamente una sua  "dubbiosa presunzione di trovare nella Storia una perfetta allegoria della mia storia personale", la Storia per l'autrice è esattamente questo: non uno scenario su cui le vicende individuali si muovono come ombre cinesi secondo i destini di ciascuno, ma una irruzione degli eventi nella storia "minore" di persone la cui vicinanza parentale permette, guardando al passato, una visione didascalica (e perciò appunto allegorica, documentale, dimostrativa e tuttavia qui feconda artisticamente) su un futuro di "dissoluzione" (*). E' anche - in altri termini - una "scrittura", ovvero forse l'espressione più alta di allegoria, una "riformulazione nella rappresentazione", scrive l'autrice. Si pone quindi, rispetto a quanto dicevo all'inizio, un interessante rovesciamento: la Storia non è per Frene un traslato, cioè qualcosa che marca una distanza e insieme l'annulla, è una "dissoluzione" a cui quella riformulazione non può dare argine. Certo, "rimangono i documenti, la memoria", e l'interpretazione di essi, ma "nulla di tutto questo tuttavia ridarà ciò che definiamo propriamente il fatto, l’evento, il veniente, che si è (quasi) completamente dissolto. Questa dissoluzione non la pone in atto la distanza storica, ma la distanza storica è posta in atto da questa dissoluzione. Tuttavia, le cose non esistono più, ma sono accadute per sempre". Pare di capire, allora, che qui soggetto a critica (e oggetto d'arte) è il tempo. o meglio una concezione di esso, proprio quella lineare e progressiva che impedisce di imparare davvero qualcosa dalla Storia, se non la sua riproducibilità della catastrofe, di quel cumulo di rovine a cui alludeva Benjamin, che si rovescia sull'individuo. E in questo sì la Storia è allegoria (o metafora, se preferite, ma non si tratta qui di fare distinzioni accademiche) del destino individuale, di una inesorabile confutazione di qualsiasi evoluzione messianica, men che mai se affidata alla modernità. Il passato è l'altra faccia del presente, e mi pare chiaro che nella visione di Frene c'è poca speranza: quel che è accaduto è destinato ad accadere per sempre, sia nel senso della sua ripetizione, sia in quello di un congelamento della Storia (la storia di ognuno racchiude la Storia e in essa si dissolve come in un acido), una specie di girone in cui la pena è la riproposizione in aeternum del delitto, che pure è già avvenuto (compreso quello che deve ancora avvenire). C'è in effetti qualcosa di dantesco in questo libro importante, che deve i suoi punti di forza ad un'idea non rapsodica, a un progetto vero (finalmente) ed a una scrittura di cui è consigliabile non perdere nessuna parola perché necessaria, anche se apparentemente "chiusa" ma non avara, e di ogni parola sarà chiesto conto a chi legge, parafrasando Matteo. Un progetto che certo ha avuto bisogno di studio e di ricerca amorevole, di un ricorso alle fonti (e perciò a quella memoria mai completamente "dissolubile"). Perchè, insieme al tempo (il Crono armato di falce sulle cui spalle nelle allegorie secentesche la Storia scrive sé stessa), l'altro centro di gravità del libro, dalla Storia mai separabile, è la guerra, nostra e degli altri, quella degli individui, dei pidocchiosi, degli sconfitti, quelli di cui in molte famiglie si conserva la foto o una medaglietta commemorativa di Cavaliere di Vittorio Veneto, uno che semplicemente c'era stato, uno dei ragazzi del '99 come mio nonno, uno morto sotto un bombardamento, uno scampato fortunosamente ad un rastrellamento o ad un cecchino. Frammenti di qualcosa che è avvenuto e mai avvenuto, dice Frene, all'interno di quella sovrastruttura chiamata Storia "il luogo dove si esprime la massima presenza del nulla che ci assedia", e che forse assedia (non può che assediare) l'Occidente (noi) a cui allude il titolo. Se c'è qualcosa che il poeta può fare (e il filosofo, secondo Arendt parlando di Benjamin, cito ancora lui)  è farsi "pescatore di perle", avere "il dono di pensare poeticamente. Questo pensiero, nutrito dell’oggi, lavora con i “frammenti di pensiero” che può strappare al passato e raccogliere intorno a sé" (H. Arendt - Il futuro alle spalle - Bologna, Il Mulino Ed.). Non c'è altra speranza, o altra tecnica di sopravvivenza. (g.cerrai)
(*) Impossibile non andare con la mente a Walter Benjamin e all'acquerello di Paul Klee che per alcuni anni fu in suo possesso, quell' Angelus novus anch'esso potente allegoria: "C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira  dal paradiso, che si è impigliata  nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta" - W.B. - Tesi di filosofia della storia (1940), in Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Torino, Giulio Einaudi editore (corsivi miei).
SESTINA BOSNIACA,
O DEL PENULTIMO GIORNO DELL’UMANITÀ
ovunque andassi, la gente mi considerava un debole
(Gavrilo Princip)

I.
se anche andassi per una valle oscura, non temerei alcun bene, perché tu sei con me:
se anche andassi a ritroso, ritroverei il corpo esploso, la pallottola
per l’eternità, una pura paternità in prospettiva: in somma, un impero centrale
II.
…un proiettile non va esattamente dove si vuole: ma due su due sono un bivio
perfetto, imboccato a ritroso come per difetto, o per eccesso di zelo:
si spinge indietro la macchina fino al punto esatto del suo non-ritorno
III.
…devi vivere per i nostri figli: non sembra vero che il ritroso si ripresenti per caso, aspetto
di un gesto grave, vista la fragilità, che afferra al petto, non il posto accanto, vuoto
il vuoto, sussurrato nella corsa del corteo pasquale di famiglia, che ha i suoi Decreti solenni, le sue Astuzie
IV.
come la storia: dobbiamo ricominciare tutto daccapo! il ritroso, il secco, lo sconcerto dei fiori
raccolto con stizza da chi si accorge che non si tratta di una tabacchiera, torna
indietro per cercare di smettere il calcolare, ma in un tempo incalcolabile
V.
…un tipico esempio della barbarie balcanica (…) ma in città non c’è alcun segno di lutto:
un tipico esempio della barbarie viennese, o più che altro europea, ovunque
ci sia musica, nessuno piange a ritroso per più di un quarto d’ora, da sempre
VI.
come sempre vivere attentamente in perenne mobilitazione, anzi
pensare finalmente a un’eredità biologica senz’altro fondamento,
dove un riformato non riformi mai davvero il mondo, ma solo sempre lo finisca
STENDITI A TERRA - SESTINA DI CRIMEA
tutto ciò che si sapeva
rimarrà come eredità

…come spesso gli uomini singolarmente intelligenti, aveva un numero limitato di idee,
un numero limitato di supposizioni, per ogni singolo soldato steso a terra:
rifare il campo di battaglia, se non si può proprio tutta la guerra, girare
al largo da queste vere carogne repellenti, ricreare da vicino se non il morbo
del vero, il vaccino del veritiero: fare la carogna per intero, in sostanza,
dare la notizia non della mattanza, ma della “bellavista”:
vedi che il braccio non sia fuori retta con la testa rotta, assesta
il colpo definitivo al cavallo centrale, centra la vera carne
malata, prima che infetta: una degenerazione veramente battagliera
di una schiera di inermi frantumati, a sfondo perduto, una quinta di fondamento
per una storia fotografica del genere umano davvero alla mano:
quella che raccolto ora, sanguigna, dal bordo della scena
[Su come nell’Ottocento si ricreavano a posteriori i campi di battaglia per fotografarli]
SESTINA COME CANTO FUNEBRE AI LOGOTETI ANDREA ED EMILIO TRA OSSARI E DICHIARAZIONI, DETTA SESTINA FUNEBRE
su queste rovine non ho fondato che rovine (T.S.Eliot)

I.
all’ossessione, si aggiunge la certezza, l’esattezza: aperti gli occhi, ha visto il nulla. e tu, piccola Cleveland, città sepolta, sarai chiamata beata tra le genti, perché hai aperto gli occhi sul sotterrato: sottoterra, vedrai, nulla cambia, o soldato: timbra il biglietto, non occorre rispetto, per questa rovina
II.
che cammina in ogni direzione, quest’ombra da dentro attende la sua prevista canzone, nel circo di sangui, ma non ricorda il passo: il motivo scritto in un crepuscolo di sasso solo previsto, prima incenerito del dovuto, annulla l’attesa, se finisce l’azione: sparisce il ricordo con tutta la canzone    (.....senza assoluzione)
III.
cade con una fretta irragionevole, anche lei da cavallo e non vede nulla, o vede proprio il nulla all’incontrario di chi si chiama vincitore, sottoscritto fermo sull’attenti che nella guardia si avvicenda, trascinando rime, maiali, in miglia tutte le possibili canzoni, colonne sonore di frantumati commilitoni
IV.
che sono in pieno fermento, ribollimento, ammutolito
in un rettangolo sollevato da terra: aperti
gli occhi, vede la guerra delle ossa in sfacelo, del
fiume tagliato a pezzettini con tanto zelo: zero vita. in cambio
di una partita col morto, fui poeta, pigro di patria o
di pietra, sostanzialmente a torto
V.
sentivo da bambino, quand’ero bambino, o soldatino-pennino,
visto disteso nel catino, lucidato, fucilato, quasi
imbalsamato: quando morto, morto. lucidato.
o l’unghia conficcata nell’impronta-urna s’avventa
sbagliata nel momento, o le cose non viste alla luce
nera del buco non sono, o il tumulo tiene, tormento, cenere (?)
VI.
prossima alla terra: guerra, carcassa del pensiero. si brucino
i corpi ma non le carte, ‘che al ritorno ritroverà
il posto, posto tra lo sterno e il cervello, povera pieve
del non-pensiero, mai putredine all’apparir del vero
campo, e santo, santi voi, enigmi incistati
nella vostra lingua morta,
mai più mia
* * *
Si cita San Paolo, quello ancora cieco; si cita, poi, Sant’Agostino e la sua “canzone temporale”; si cita, infine, Leopardi, ma prima Foscolo. Questa poesia vuole essere una discesa agli Inferi fatta di orditi testuali estratti e digeriti da: ‘Rivolgersi agli ossari...’, di Andrea Zanzotto (da Il Galateo in bosco); Dichiarazione del soldato morto, di Emilio Villa (da Oramai); ‘le cose non viste come sarebbero...’ e In-estesa di Giovanna Frene (da Datità) - e qua e là dal poemetto Spostamento.

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Magazines