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Giovanni Brass, detto Tinto: tra utopie erotiche e sessualità moribonda

Da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Il vero pericolo del cinema italiano è sempre stato quello di osannare e dimenticare con la stessa facilità. Accantonare ciò che non muta repentinamente al mutare dei gusti (spesso indotti) del pubblico.

Ed è per questo che credo sia interessante riflettere, nel nostro piccolo, sull’intera esperienza artistica di Tinto Brass (ottant’anni appena compiuti), forse l’ultimo dei Mohicani del cinema italiano.

L’ultimo di una stirpe di registi che ha permesso all’artigianato filmico italiano di trionfare in tutto il mondo. L’ultimo esponente di quella stagione unica ed irripetibile, dove la ricerca di un linguaggio omogeneo alla realtà della vita quotidiana si coniugava con l’attenta narrazione (e non sempre l’esaltazione, come molti critici hanno scritto) di un’Italia che stava rapidamente cambiando pelle, mentalità, gestione dell’esistente, passando dalle rovine neorealistiche del dopoguerra alle laceranti contraddizioni del boom.

Aiuto regista di Roberto Rossellini ne Il Generale della Rovere (1959), apprese dal maestro la necessità che il cinema rifletta e riconduca le contraddizioni dell’uomo all’uomo stesso, di rappresentare l’organicità tragica ed erotica della vita senza tagli né censure, al di là di falsi pietismi e moralismi.

Ed è precisamente da qui che nasce in Giovanni (Tinto) Brass l’esigenza di una messa in scena totalizzante (e non totalitaria né tantomeno succube dei gusti estetico-linguistici dominanti), di una ricerca tecnica asciutta, di una ripresa attenta e vitale, senza barocchismi. La vita deve parlare – né più né meno – attraverso le immagini.

Nella sua immagine “totale”, nella pressante ma mai oppressiva integrità rappresentativa, Brass ci consegna un bagaglio tecnico-artistico unico nel suo genere, capace di spaziare senza paura, con la lucidità e l’eclettismo dei grandi intellettuali, dai primi esperimenti come regista negli anni sessanta, in cui indagava con piglio esistenzialista (prendendo spunto da La notte e L’eclisse di Antonioni e per certi aspetti delle sequenze più grottesche de La dolce vita e 8 1\2 di Fellini), un paese nevrotico in preda alla sua prima esplosione economica e allo sconquasso conseguente di tutta una tradizione famigliare e di rapporti di coppia ormai consunti ed inabili a contenere le energie che da lì a pochi anni sarebbero esplose, registrato magistralmente dai primi esponenti della cosiddetta Nouvelle Vague all’italiana (Marco Bellocchio in testa).

Chi lavora è perduto del 1963 esprime a pieno questa tendenza sociologica (tipica della cultura pedagogico-formativa degli anni sessanta) di registrare l’impossibilità di una società cristallizzata da secoli ad adattarsi, senza sforzo né fatica, alle immani trasformazioni economiche e sociali in atto, proiettando sul paese un inedito prisma antropologico e psicologico, che non può non intaccare l’essenza stessa della sessualità umana.

Giovanni Brass, detto Tinto: tra utopie erotiche e sessualità moribonda

Quale eroticità può darsi e sopravvivere in un mondo integralmente industrializzato, gestito dalla logica perversa del denaro e della rincorsa al profitto a tutti i costi? Che ruolo ha l’umanità in questa mutazione? E per essere più precisi, esiste ancora l’uomo, come lo abbiamo conosciuto finora?

Sono precisamente queste, alcune della domande che Brass pose alla base dei suoi primi lungometraggi degli anni sessanta (La mia signora, L’urlo, Nero su bianco, Dropout) in cui riflette come nessuno (forse solo alla pari con la tetralogia dell’incomunicabilità di Antonioni) sulla complessità presente ma arcaica dei rapporti umani, soprattutto nell’universo di coppia, indagando con sperimentazione anarchica ed irriverente la follia manicomiale a cui è destinata l’ipocrita moralità borghese, evocando l’impossibilità di vivere relazioni sentimentali ed erotiche in grado di riqualificare fino in fondo l’inedita mercificazione e la reificazione di massa, che invadono il paese.

Ed è precisamente qui che l’impulso erotico alla ricreazione di un tessuto umano e psicologico adeguato allo sviluppo sociale, alle conquiste civili delle donne e alla liberazione sessuale dei corpi, capace di intravedere le tendenze future, si impone come vertice ineludibile della critica radicale a un sistema amministrativo delle coscienze, che tenta di inaridire l’eros genuino degli strati popolari inurbati nei grandi centri produttivi (riflessione parallela a quella di Pasolini sul sottoproletariato delle borgate romane), trasfigurandoli nelle loro più autentiche passioni – che come asseriva Gramsci sono l’essenza stessa della cultura nazional-popolare italiana -, rendendoli succubi del formalismo astratto e corrotto della classe dominante.

La battaglia prioritaria contro qualsiasi forma di moralismo (a destra come a sinistra) diviene il suo obiettivo per eccellenza (particolarmente evidente in un film come La vacanza del 1971) fondendosi quasi involontariamente con la formulazione audace di una cifra stilistica ed estetica unica nel suo genere, capace di tessere insieme grottesco, denuncia sociale ed eros “puro”, ma sempre attento a non svelare mai troppo, lasciando cioè allo spettatore la magia dell’intravisto, dello sguardo presente ma distratto, del visibile che non si disvela integralmente, permettendo all’immagine di riflettersi criticamente su se stessa, analizzarsi nel cogliere i suoi limiti, costruire cioè una profondità verace senza rimanere schiava della sua cristallizzazione scenica. Un quadro in movimento che domina senza subirsi, che traccia ma non segna, che parla ma non urla, che individua senza identificare. Questa è la straordinaria capacità interpretativa di Brass, passata indenne attraverso più di cinquant’anni di carriera.

Ma la battaglia contro il moralismo ideologico del cinema italiano si coniuga con la lotta estenuante per la centralità visiva e dunque culturale ed estetica del corpo umano e femminile in particolare.

A chi si è sempre scagliato ipocritamente contro lo studio brassiano delle dinamiche e delle evoluzioni creative e progressive del corpo, delle sue capacità oniriche e sentimentali, e il presunto maschilismo che ne rappresenterebbe il collante pernicioso, basta la visione attenta dei suoi film per capire che la donna, in qualsiasi ruolo venga rappresentata e in qualsiasi momento della sua vita, si trova al centro della scena, anzi messa su un piedistallo “inavvicinabile”, divenendo la protagonista assoluta di ogni trama e di qualsivoglia intreccio narrativo.

La ricchezza estetica del cinema di Brass passa indiscutibilmente attraverso il parossismo artistico che il corpo femminile riesce ad esprimere. La donna come elemento totalizzante del vivere umano (dunque non vista solo come corpo da manipolare, da godere) gli deriva direttamente dal suo amatissimo e insuperabile Goldoni. Ed è la stessa commedia dell’arte che interpreta la donna come stella polare di ogni intuizione artistica e passionale; ogni gioco ed ebbrezza nasce dal suo piglio e dai suoi capricci (non sempre giustificabili dalle ottuse e limitate menti maschili), ogni finale giustifica una sua risoluzione, dando con ciò luce eterna al buio del mondo e alle tenebre in cui spesso cade la storia.

Esempio lampante di questa centralità del femminile è Fermo posta, film a episodi tratti da lettere ricevute nel suo ufficio e smistate dalla provocante e procace assistente (l’ambigua Cinzia Roccaforte). Brass scarta di proposito le “voglie” maschili, per soffermarsi solo su quelle femminili, ribadendo con ciò la predilezione per la poetica sensibilità e le passioni indicibili della donna come nucleo essenziale di una rivoluzione che non deve essere solo ed esclusivamente sessuale (in questo pornografica) ma principalmente erotica, giocosa, ironica e grottesca, di sguardi e rimandi sottili, il tutto condito con una carica comica e dissacrante.

È facile fare e mostrare del sesso; molto più difficile rappresentare, vivere l’erotico in quanto relazione-rapporto tra detto e non detto, volontà e remissione, presenza-assenza. Il porno uccide il piacere e la fantasia; l’eros apre e può aprire una dimensione altra, autenticamente alternativa, utopica di trasformazione oggettiva. Dando voce ai sogni e alle fantasie si può dunque arrivare alla trasformazione della realtà.

La centralità riproduttiva dell’estetica femminile – soprattutto in Salon Kitty (1975) e nel monumentale Io, Caligola (1977) - non si limita ma anzi trabocca ogni possibile schematismo stilistico, rappresentando puntualmente la totalizzazione raffigurativa della sua fisicità erotica, passando dal sociologismo psicologico dei primi anni sessanta all’iper-visualizzazione fisiologica degli anni settanta ed ottanta, dove la problematicità storica dello statuto dinamico e propulsivo dei corpi arricchisce e completa quello esistenziale dell’uomo in lotta perenne contro l’assurdità del vivere quotidiano.

Ed è in questa prospettiva che la ricerca di Tinto Brass si è mossa negli ultimi trent’anni, da Action (1980) al celeberrimo La chiave (1983), da Miranda (1985) a Capriccio (1987), da Paprika (1991) al capolavoro assoluto Così fan tutte (1992), da L’uomo che guarda (1994), tratto dall’omonimo romanzo di Moravia, a Monella (1998).

Certo, non sempre realizzando prodotti di estremo interesse, basti pensare alle ultime produzioni come Trasgredire (2000), Senso 45 (2001), Fallo (2003), Monamour (2005), ma costruendo mattone su mattone un’immagine della sessualità e di “uso dei corpi” (per usare una formula di Michel Foucault) autonoma, né erotica né tantomeno pornografica in senso stretto, collocandosi nel crocevia tra hard e soft, come originale sintesi dialettica delle due tendenze.

Ma a questo punto è necessario sottolineare che l’essenza sociologica insita nel suo cinema, nel cogliere gli umori e i mutamenti profondi del gusto e del desiderio sociale, non è prettamente riconducibile alla tipizzazione accademica del dato, alla stereotipizzazione del fenomeno, ingabbiando il dinamismo qualitativo in uno schema immutabile. Il suo è un sociologismo critico, che sonda sia in verticale che in orizzontale i desideri frustrati e i sogni insoddisfatti della vita quotidiana, partendo dal crudo realismo e dal carattere spesso grottesco dei moventi e delle voglie proibite di un eros sempre più dipendente dalla sua antica (e forse più magica ed impenetrabile) natura voyueristica.

Forse è inevitabile che dove c’è eros ci sia voyeurismo. Brass impara la lezione dai grandi del passato come Marziale, Lucrezio, Giovenale, Petronio, Boccaccio, senza dimenticare Sade e Stendhal (ed è curioso oltre che significativo, che uno dei protagonisti de L’uomo che guarda si chiami proprio Alfonse Donatien, come il famoso marchese). Ma non basta imparare. Occorre rielaborare le tradizioni passate nel marasma concettuale e verbale dell’oggi.

Riattualizzare la ricerca di un eros essenziale come esistenziale, senza sconti per nessuno, autentico, vitale, creativo, grottesco ma mai volgare, ludico e gioioso come antidoto al senso della morte (il Thanatos di Nietzsche e la pulsione di morte di Freud) che dilaga nella nichilistica cultura europea.

Brass tenta dunque un’operazione disumana. Da una parte tenta di imporre in Italia un discorso sull’emancipazione libertaria (non propriamente libertina) della sessualità, nell’elaborazione di una mondanità erotica straripante e sfacciata, scevra da qualsiasi ingerenza politica e morale, concretizzando una sorta di delirio dionisiaco soggetto esclusivamente alla propria soddisfazione (omogeneo in questo al Marchese de Sade), e dall’altra combattere senza tregua contro il progressivo scivolamento della grande tradizione erotica verso una visualizzazione ossessiva sempre più totalitaria, che trova il suo sbocco naturale nella coitocrazia contemporanea.

L’eros brassiano come sintesi dialettica di soft e hard, intreccio sapiente di una visibilità pronta alla propria stessa invisibilità lasciando spazio critico alla creatività dell’immagine, si propone attivamente come opposizione “militante”, politico-culturale, all’appiattimento regressivo della sessualità a consumo mercantile di un coito stanco e ripetitivo, troppo sbandierato, strumentalizzato, per essere la metafora di una riqualificazione umana complessiva.

Il suo può essere un eros che civetta qualche volta con una velata pornografia, ma che non abdica mai alla sua panacea dominante, rappresentando altresì il grimaldello polemico di una società in costante putrefazione, il farmaco vitale di cui servirsi per riscattare la brutalità irrazionale del mondo, la fonte da cui abbeverarsi per sfuggire all’omologazione delle menti e dei costumi.

Brass nel proporci la sua lettura di una gestione – per quanto possibile – libera dei corpi, ci provoca a produrne una nostra, autonoma, senza compromessi con il pernicioso ritornello dello status quo, con il pedagogismo astratto e ridicolo della chiesa e del senso di colpa generalizzato, che instilla nelle coscienze la paura di esporsi sessualmente, nell’impossibilità di lottare per la piena soddisfazione dei propri desideri, la realizzazione concreta delle proprie fantasie.

Tuttavia ha ragione chi denuncia l’immobilismo sostanziale della narrazione brassiana degli ultimi anni, sfornando film schiavi della loro stessa natura provocatoria ormai in disuso (in una società come quella italiana assuefatta allo scandalo e alla perversione), cristallizzati in un vocabolario incapace di incidere come dovrebbe. La famosa scopofilia non è forse più in grado di rappresentare un’alternativa possibile (anche se ancora auspicabile e propulsiva) al disastro di un’intera civiltà. Forse è inevitabile che il nichilismo e Thanatos vincano contro le gioie vitali del dionisiaco.

Ma la questione non può essere posta in termini di vincitori e vinti. Occorre abbandonare qualsiasi dimensione manichea per affrontare le sfide attuali, combattere per risvegliare le coscienze estetiche e i genuini desideri sessuali sopiti dall’orrore della mercificazione.

La geniale parabola presa in prestito dalla grammatica popolare che certifica l’essenza di un uomo dalle sue natiche (è famosa la frase che spesso ricorre nel cinema brassiano, “ognuno è il culo che ha”) non potrà mai essere inquinata dall’abdicazione commerciale dell’ultima fase, di cui Brass fu suo malgrado protagonista per venire in contro ai desideri “malati” di un pubblico che tendeva sempre più (per non parlare dell’attuale dominio della parcellizzazione virtuale della rete e sua relativa assuefazione) al consumo immediato senza profondità né prospettive, all’appagamento astorico e inumano di un coito indefinito ed indefinibile, astratto ed informe.

«Le immagini vanno dominate non subite», sbotta durante una sequenza di Fermo posta, con lui protagonista (amava essere sempre presente nei suoi film come il suo grande maestro Hitchcock, di cui un po’ parodiava le movenze e l’aspetto fisico, compreso l’inseparabile sigaro), in cui la sua assistente manda distrattamente avanti e indietro un nastro VHS uccidendo la “magia” e la complessità di costruzione e di fruizione dell’immagine filmica. Tutta qui, a mio avviso, la sua straordinaria professionalità e amore viscerale per l’arte cinematografica.

Tutta qui la sua sensibilità nel rintracciare l’erotico che allude alla sessualità nel quotidiano, nei piccoli grandi gesti che ogni uomo fa ogni giorno, svelando il lato ludico, onirico-surreale (in questo molto vicino a Dalì) in ciò che solo apparentemente risulta essere statico, immobile da secoli. Cogliere furtivamente un dinamismo che porta altrove, che suggerisce ed evoca altre e più autentiche (anche disturbanti) dimensioni, fa da contraltare ai suoi spassosi e goliardici provini estemporanei con le monetine (per vedere come l’attrice si comporta nel chinarsi) e con la sua passione nello scovare le sue “muse” nella strada, mentre pedalano o servono ai tavoli di un ristorante (retaggio del vecchio artigianato neo-realista), testimoniando l’attaccamento feroce alla bellezza inesauribile della vita, nella gara contro l’invecchiamento e l’abbrutimento presenti.

Basta leggere la cinica recensione de L’uomo che guarda sul dizionario Morandini per coglierne l’intricata personalità, il policentrismo estetico e la contraddittoria versatilità narrativa.

«Già vate del pelo pubico, cantore di deretani boffici, rapsodo delle poppe al vento, T. Brass diventa qui poeta da membro in erezione: una ventina di peni (in maggior parte finti) in innalzamento o in distensione, diciotto congressi carnali in varie posizioni, un orgasmo – effettivo, ricordato, fantasticato – ogni 5 minuti in media. Trappolerie visuali, girigogoli caleidoscopici, allumacature torpide, saccenti esercizi di ridicolaggine involontaria, citazioni di Mallarmé, Baudelaire, Gide, Céline.»

Fedele in questo al suo collega Valerian Borowczyk, ha sempre posto il lato grottesco e imprevedibile della gioia erotica, al posto d’onore. Ancora in Fermo posta, lo stesso Brass ribadiva:

“I sogni sono l’unica vera realtà”.

Lottare per realizzarli è dunque l’unica speranza concreta dell’uomo storico. Dove c’è eros c’è vita, fantasia, gioco, storia e progresso. Ed è questo il lascito incommensurabile dell’ultimo dei Mohicani.

Claudio Vettraino


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