Giovanni Falzone – Meeting In Paris

Creato il 24 aprile 2012 da Postscriptum

Uno degli album che sono tornato spesso ad ascoltare dal 2006 ad oggi è Meeting in Paris di Giovanni Falzone (tromba), Robin Verheyen (sax tenore e soprano), Bruno Angelini (piano), Mauro Gargano (contrabbasso) e Luc Isenmann (batteria). Il titolo è azzeccato, questa è l’unica premessa valida. L’opera è il risultato finale di alcune registrazioni istantanee:

“Da molto tempo avevo il desiderio di realizzare un disco come si faceva negli anni cinquanta e sessanta: incontrare dei musicisti in studio di registrazione, dire il minimo indispensabile sulla struttura dei brani, una breve prova e poi…”
… e poi Capolavoro! Quest’ultima cosa non la dice Giovanni Falzone, neanche la pensava forse, ma la sua descrizione è senz’altro attanagliante. È sin troppo facile andare a paragonare di qua e di là, andando a riprendere le registrazioni al Plugged Nickel di Quel tale.  Un primo paragone che mi viene in mente – almeno per atmosfere – è con alcune cose di Wayne Shorter (periodo Speak No Evil ma non solo). In altre parole, parafrasando Quel tale, si suonano le note più inaspettate nel momento più opportuno, per un risultato sorprendente quanto eccellente. Tuttavia i paragoni sminuiscono sempre, occorre dunque procedere nell’ascolto calcolatamente ripetuto dei brani.

Rotation è il primo brano in scaletta, sensatamente allaboutjazz (link) cerca un parallelo con Ellington. Condivisibile, ma non basta: la sensazione delle spazzole introduttive ricorda un nastro spezzato che gira senza tregua, in un continuum circolare infinito. D’altronde, mi pare opportuno ricordare che in un sistema finito, con un tempo finito, ogni combinazione Può ripetersi infinite volte. È il giro di basso ad amplificare tali percezioni lente, rotative. La “monotonia” esoterica gravitante è spezzata dagli inserti dei fiati, talvolta congiuntamente discordanti. In tal senso è quasi miracoloso il minuto 3.06. Il brano riesce a tenere in bilico l’ascoltatore sino a renderlo partecipe di un malessere stendhaliano, appena appena mitigato dalle note blue che easily sfuggono dalla tastiera di Angelini.

Dal cerchio al flusso aperto il passo è breve, la dimostrazione di tale tesi sta tutta in Three For One, quasi una dichiarazione mistica e dogmatica. I passaggi dai blues moment più retrò, agli allucinati stati del Coleman più ascetico e coltraniano, sono contrappuntati da epiche fughe verso l’alta sede. Come in basso, così in alto…

Veggente è introdotta perfettamente da una simile interpretazione ermetica. Il lavoro del siciliano Falzone assume sempre più i contorni di un saggio sull’essere, o sulla coincidenza di questo con il non-essere essente. Il brano è finemente “orecchiabile”. Al minuto e zeroquattro una gran frase dà largo ad uno dei pezzi più belli che abbia mai ascoltato. I suoni sono insinuanti. Ed il tutto sembra troppo perfetto per non esser stato puntigliosamente preordinato con attenzione. Un giro di basso da aritmia cardiaca ed un Verheyen davvero superlativo. È esaltante la simbiosi immediata che questi musicisti mettono in atto dalla imprevista potenza.

Una bellissima ballad come Miniature -3- è essenziale al fine di calmare gli animi e tacitare i pensieri, nell’assoluta contemplazione del momento “dilatato” di un tempo lungo, lunghissimo, fumoso di spirali alcoliche e di locali da noir (a la Santo Piazzese, o Frank Spada se vogliamo). Si sottintende adesso “l’investigazione”, la ricerca, che è alla base di questo lavoro. Come dovrebbe esserlo per ogni esistenza – anche solo immaginaria – su questo pianeta.

Si tratta di esistenze, di Vite in Piattaforma, ben delineate dalle bacchette introduttive di questo quinto pezzo. Vite in bilico, sorprese dagli accidenti più casuali. Cos’è il libero arbitrio? Se lo chiedeva anche Boezio. È forse cercare un equilibrio, nella ricerca. Nella consapevolezza che esiste un tempo finito, quello da noi vissuto in ogni attimo. Ed uno infinito, ove opera un presunto finto-Caso (Fato?), un tempo solo ipotizzabile, adombrabile anche per mezzo di suoni. Ad esempio da 2.04 del brano in questione, ma il tutto avviene con molta circospezione e nervosismo. Si scrive per nervosismo, diceva Bioy Casares… Il sordinato falzoniano intanto riesce a rendere l’idea di questo mondo subacqueo quotidiano.

Un mondo dove è Pericoloso Pensare, ecco la connessione logica al successivo brano. Allaboutjazz cita non a sproposito Morricone, ma direi che non sono da sottovalutare le influenze rockeggianti di Falzone. Un appassionato del mondo hendrixiano (link) come di quello ledzeppeliniano. Sono le pelli a segnare un tempo sbattuto in faccia, mentre la tromba si evolve in un assolo serrato, chitarristico. Il pezzo è heavy ma inquietante.

L’oscurità di un castello nero (Black Castle) caratterizza la cantabilità del settimo pezzo. Le veloci note del piano, mosche che disegnano rapidi diagrammi nell’aria, sotto il maestoso incedere delle frasi fiatistiche. L’andamento è imponente. Altro momento eccelso del disco questo. Con Angelini in evidenza sugli altri. Sembra una narrazione che rimanda a Poe, tanto per ravvivare le similitudini con Speak No Evil.

Che la chiave di lettura dell’album non sia prevedibilmente nell’ultimo brano, mi sembra chiaro. Eppure Machine Man, brano che si ispira a Tempi Moderni, chiude il Cerchio (o l’ellissi) in maniera ineccepibile. Le paure di Chaplin sono le medesime di questi ulteriori moderni tempi. La meccanizzazione del vivere è in costante avanzamento. Il pensiero diviene un difficile e pericoloso passatempo per oziosi. Il cerchio, prima si schiaccia, poi si deforma in spirale, avvolgendo l’uomo nel buio di un castello nero. La capacità divinatoria che è insita nel nostro animo deve essere riscoperta, con l’indagine, anche minuziosa – ma soprattutto ironica – del procedere indolente, per note.

Musica per pensare!

Alcuni estratti da ascoltare (link)

Gaetano Celestre