Giovanni Fontana - Questioni di scarti

Da Ellisse

Giovanni Fontana - Questioni di scarti - Edizioni Polìmata, 2012

Cos'è uno scarto? E', in questo libro di Giovanni Fontana, il protagonista principale, l'obbiettivo di una invettiva, un ragionamento politico, una visione del baratro, l'esplorazione di un territorio artificiale, un  guardarsi allo specchio. Lo scarto siamo noi, senza dubbio, noi ne siamo gli artefici, poiché senza di noi il rifiuto, la scoria non avrebbero ragione di esistere. A noi è ascrivibile questo gigantesco ready made, così difficile da trattare artisticamente se non come citazione o simbolo o trasfigurazione (basti pensare, a titolo di esempio, a tutto il lavoro concettuale intorno alla cosiddetta "arte povera", o all'arte in sé implicita in una "merda d'artista" di Manzoni). La scoria, di cui siamo produttori e vittime, come elemento costitutivo (ma in molta produzione letteraria solo collaterale, scenografico) di una attuale poetica della crisi. Il lavoro di Fontana, arduo, impegnativo e coinvolgente,  va oltre. Per quanto le scorie siano ormai metafora del mondo contemporaneo, questo è un libro antimetaforico. E' proprio l'accumulazione ipertrofica degli scarti che non permette più la metafora,  per la semplice ragione che il singolo scarto  - nella massa enorme e indifferenziata (appunto) dei rifiuti - non è più identificabile. In altre parole non è più metonimia, ha perso la sua relazione identitaria di oggetto, perfino, direi, la sua responsabilità, o se preferite la sua rappresentatività. E insieme è andata annullandosi la distanza tra oggetto e produttore/fruitore. Lo scarto si è incistato, è la trave che abita perennemente nel nostro occhio. Fontana non ne indica il simbolo, non ha necessità di farne qualcosa di esemplare perchè lo scarto è pervasivo, anzi è globale, non separabile da un concetto di eccesso legato alla surmodernità (M. Augé): anche lo scarto è un non luogo, in fondo.

Per quanto la parola abbia i suoi limiti oggettivi, specialmente per un poliartista con una biografia ricca come quella di Fontana (per brevità v. QUI), sono proprio le due sezioni scritte (o parlate, se preferite - un dialogo, o un'operetta morale) le più efficaci, anche se è da segnalare che ce n'è una terza, centrale e sostanziosa, composta da 40 composizioni grafiche, dal titolo "Polluzioni". In queste due sezioni "lineari" il linguaggio effettivamente "emerge come da una faglia", come avverte la quarta di copertina, "e si sparpaglia lungo i traversi crinali dello scarto". L'effetto è garantito ed è soprattutto raggiunto l'obbiettivo, che certo era prefisso, di smascherare la progressiva perdita di significato, lo spossessamento del linguaggio stesso, specialmente dove applicato alla verbosità inconcludente, scientifica o politica che sia (un esempio per tutti, il protocollo di Kyoto, qui citato). L'affastellamento di parole, forse le stesse che sono state spese inutilmente per parlare del problema, il loro affollamento, l'accumulazione e la reiterazioni di sintagmi, le associazioni di idee e suoni, le mascherate citazioni colte, i riferimenti all'attualità politica, sono l'elemento più vistoso di questo libro. Qui il linguaggio riprende il posto che gli compete, dimostrandosi più efficace, in termini di icasticità, di molta poesia visiva perchè si pone esso stesso in discussione. Da questo punto di vista il libro è espressamente antiretorico, non vi è nessuno spostamento strumentale del linguaggio sul versante emozionale o affettivo, l'espressione è asciutta quanto può esserlo la scheggia di una mina, secca quanto il tratto delle composizioni grafiche della sezione "Polluzioni", o uno schiaffo al lettore. C'è inoltre almeno un'altra considerazione da fare. Diversamente da altre scritture definibili genericamente "di ricerca", in cui ad esempio un blocco testuale "d'uso" viene spostato in un diverso contesto e reso "arte", e in un certo senso falsificato (si legga, un esempio tra altri, "da 1000 m" di Alessandro De Francesco, GAMMM ebooks), in questo libro la scrittura non si allontana mai dal tema, lo tallona da vicino, è il tema, non deve significare altro da esso, è scarto significante dello scarto. Se anche non mancano brani in cui si adotta (o si mima) un andamento saggistico, essi tuttavia sono appunto imitazione e insieme simbolo di uno scoglio razionale a cui è difficile aggrapparsi, perchè viene immediatamente irriso, sommerso dal magma.  Si  può dire, se mi si perdona l'azzardo, che qui la poetica dell'oggetto, da Montale - almeno - a Anceschi,  raggiunge il suo olocausto, insieme all'oggetto stesso (ora scarto) e al suo parente prossimo, il correlativo oggettivo (come infatti è possibile stabilire una catena emozionale con lo scarto che non sia altro che un unico e solo e drammatico horror pleni?). C'è, a mio avviso, una tensione (e forse una domanda ultima) qui sottesa: ha una possibilità il linguaggio di poter descrivere l'accumulo di detriti senza diventare esso stesso scoria, senza dismettere la sua linearità, il suo ordine, la sua forma (anche come oggetto)? Difficile rispondere, tuttavia a me sembra che qui ci sia una chiara clausola di salvaguardia, nel senso che per Fontana resta imprescindibile la necessità etica di mantenere, finanche nel singolo lacerto della proliferazione verbale, un alto livello di comunicazione. E' questa, secondo me, una delle ragioni principali per cui questo è un libro politico, aggettivo che stimo assai  più dell'abusato "civile".

Giacché Fontana ci avverte che  sta parlando di noi e neanche troppo alla lontana; che la dimensione dello scarto non è altra da noi; che la distanza a cui accennavo prima è sempre più corta e sempre meno ci separa dal rischio che anche la nostra sia una delle "vite di scarto" di cui parla nel suo omonimo saggio del 2005 Szygmunt Bauman (qui per l'appunto evocato e criticato insieme), secondo una logica che, sia detto incidentalmente, la crisi accelera e che prevede una progressiva limitazione dei diritti, delle libertà civili, del welfare e una parallela maggiore smaltibilità dell'individuo non più sfruttabile convenientemente. L'autore ci ammonisce, con questo prolungato inesausto grido, a vigilare e a prendere coscienza con uno sguardo certo più acuto e critico, aggiungerei, di quello di Marco Polo di fronte alle montagne di rifiuti della città di Leonia ne  "Le città invisibili" di Italo Calvino ("un viaggiatore, uno straniero scettico, un estraneo non coinvolto, un perplesso nuovo arrivato")che Bauman (ancora lui) cita nel suo scritto "Wasteful planet" (v. QUI). L'allarme di Fontana è evidente. E non è un caso che il libro inizi da quei luoghi del mondo in cui, "da cumuli fumiganti. Sistematiche invarianti del paesaggio", si agita un'umanità di scarti simbionte di rifiuti. Luoghi di cui è inutile illudersi che siano esotici e lontani. (g.c.)


(Pubblico qui l'inzio delle sezioni "Questioni di scarti" e "Smaltimenti". Le immagini sono tratte dalla sezione "Polluzioni" - Riproduzione vietata)
Questioni di scarti
- Santo cos'hai? / tu insisti sui sensali per guadagnarti
un pizzo inconsistente / cosa temi? / che caso mai ti
scoppi tutto dentro?
- E v'era dentro il cancaro e la febbre / e mille morbi
che si uscian fora
(da La discarica fluente, marzo 1997)  
- Non a caso. Da cumuli fumiganti. Sistematiche invarianti del paesaggio. Dalle montagne di Guiyu e di Tongshan. Un arsenale di condizioni imposte. Proposte in acque di putredine. Villaggi trash. Diresti. Cina meridionale. Forse. E Scampìa. E polo antartico. E là nell'inferno del disperato ghetto di Nairobi. O Caracas. E Buenos Aires. E i docks in qualche porto disastrato. Ma anche giù per i Campi Flegrei. E distese. D'aree industriali o campagne in fermentazione. Corrotte cuccagne. Purulenta stratovisione di composte. Contrapposte. In impulsione. Repulsione. Inversione di tratteggi ininterrotti. Di solchi profondi. Di
ferite blenorragiche nei fianchi della terra.
- Direi specchio emorragico del volto tragico delle merci in cataste ordinate nei piazzali delle manifatturiere. Qui. Un Occidente infernale nel passo disavanzato. Laccato però. E smagliante.
- Non a caso sincrono. Ci sono corpi che non tornano. E qui i rifiuti. Resti ingombranti. Troppo. Ormai. Troppi. E disperati. Placcati dall'ingiuria del mercato. Corpi di scarto. Oggetti. Con difetto di tempo. Rigetti. Ghetti.
- Direi volti sconvolti. In risvolti subumani. Reperti trascritti da residui stravolti. Cui non è più possibile dare un nome. Distratti. Che sfuggono.
- Non a caso i rumori di fondo sconvolgono il paesaggio dell'esplosione. Un bagaglio di preferenze a fronte di scelte obbligate svilisce la comunicazione. L'immobilità danneggia la produzione. È una questione etica. E anche estetica. Forse.
- Direi che qui si tratta di processi di digestione troppo lenta. Di costipazione. E di costituzione debole in subdola apparenza. Perché il consumo ammorba. L'ulcera della caduta è sotto l'inguine del tuo nudo disperato. E un ponfo. Ora. Impalpabile. Chissà. Sia forse un cancro?
- Non a caso mi palpo bozzi dappertutto. Un inno chirurgico di attese. Pretese compiaciute di grumi di batteri in intrapresa. Per costruzione di chimismi d'offesa. Morsi di versi ti logorano il fegato. Incompatibile. E una bestia di presidente fa la guerra a Kyoto.
- Direi per corruzione di tessuti. Muscolari. Epiteliali. Di vasi nodali. E nodi di canali. Linfatici. E spermatici. Ormai intasati di concrezioni e placche. Come le tue città del resto. Interdigitali. Ma a circuiti di traffico bloccato. Destinato al collasso. Un cesso di città impossibili per forme e per strutture. Per funzioni. Cablature. Imbrigliate ormai. Per ceppi
a difetto. Inestricabilmente.
- Non a caso è impossibile correggere rapporti divaganti. In pagine assenti dai tavoli ufficiali. Dai dossier plurali dei leader sindacali. Zenitali nelle messinscene. Notabene. Qui si tratta di benzene. Propilene. Benzopirene. Talora di altalene oscene e poco funzionali.
- Direi che qui oramai siamo all'inverno delle rivincite. Rancide un po'. Viscide un po'. Niente affatto specifiche. Qui. Tutto si smerda fantasmagoricamente. In vibrante polluzione. È la tecnica dell'inquinamento immaginifico. Dello sbraco prolifico. Da
baraccone. Ingiurioso. Ingiuriato da fattori di disturbo. Quelli delle golette verdi e simili.
- Non a caso si sono organizzati per sperimentare la banca del rifiuto. Aiuto. Deliri. Si tratta di cloache e schiume.
- Direi di luridume. Infetto. Di lerciume. Pattume a dispetto.
- Non a caso in casa stridono di sozzure e croci. Un acidume nei bronchi e gli aghi nei polmoni. L'immagine del bianco è ormai letteratura. Del silenzio. Lo snodo. È la bordura.
- Direi che un imperioso giorno di prova ci attende. Contro un morboso tira e molla. Con colla da respirare nei sobborghi. Un moccioso da marciapiede non arriverà a domani. Sarà un giorno merdoso come tanti. Pernicioso. Odioso. Un giorno ribaltato dal domani. Riversato in pieno. A piene mani sui minuti contati. O come credi che l'oggi stringa ieri nel pugno. Rigettato poi nel giorno seguente per disfunzione temporale. Ma con un chiaro segno del passato. E una connotazione che rimanda a un futuro balordamente drammatico. Come quando il seme della tragedia te lo porti dentro. Come quando si raccatta. Un lamento. Si ricompone il frammento rigettato dalle ombre dell'essere. E a questo punto quale sarebbe la qualità dell'esistenza?
- Non a caso si parla per metafore funeste della produzione in serie. Dello sbando. Del comando assunto in nome d'un interesse a tutto campo. Senza scampo per chi gioca fuori ruolo.
- Direi che questa è la società avanzata. Avanzata da ieri l'altro. Quando il piombo inquinava di pallottole perfino le creste delle vette. Forte di una rete d'informazione che vende morte per pochi spiccioli. Qui si tratta di telecomunicazione globale votata al consumo radicale.
- Non a caso il tragico è dissimulato per bene col reality show. E l'alienazione sfora nella disperazione. O nella dispersione delle figure di dentro. E dei volti di fuori. Tutti ben maquillés. Ma con uno sguardo al conto fecale. Un contratto bugiardo. Capzioso e gagliardo. Però.
- Direi testardo. Così dannatamente poco post-industriale. Non a caso l'horror pieni angoscia i cittadini  per bene. L' horror vacui spinge a stipare pene. E sull'ebbrezza  vacanziera scatta la molla del consumo. Una bolla effimera. Un sogno che va in fumo al primo salto di brezza. Resta solo la monnezza. Qui. Tra noi.
- Non a caso buste variopinte sono il segno di un fine settimana festeggiato al supermarket. Campo della distratta percezione. Ma spastica, In plastica. Icastica. Oltre il giudizio contratto. Che in conclusione incide con trilli di colori. Di suoni. Di odori. Di pungenti sapori. Di luci. Gli strati corticali.
- Direi che ho una sensazione di fastidio. Il tratto è impraticabile. Rimbomba nel cervello vuoto. Una tomba di memorie e di scorie. Come un paesaggio urbano racchiuso in un armadio. Serrato nel pieno della radio in sequenze di voci e suoni in multi linee di frequenze sghembe. E per contrasto adiacenze compunte. Vomitevoli. E uno strapieno di prodotto culturale standard. A perdita d'occhio. A dismisura. Stipato in ordine.
- Non a caso siamo in attesa di mezzi di trasporto. Rigorosamente su gomma. Noi rifiuti urbani.
- Direi forse umani.
- Non a caso di ciò non c'è certezza. Come per il diman.
- Direi che stiamo appesi a questi rami così com'erano le foglie del poeta.
- Non a caso è qui l'autunno del nostro scontento
[...]
Smaltimenti
- la discarica è fluente / la foglia è stretta /
larga è la via / dimmi la tua / che ho detto la mia
(da La discarica fluente, marzo 1997)
- Si tratta di timore cosmico. Come fu detto. E infatti so che ha lavorato. E lavora. Hai lavorato. Tu. Anche. Nella terra. E voi. Diversi anni. Non so. Piccolo e fragile. Se. Forse. Lui. Trattava scarti. Per debolezza o consapevolezza. Di che tipo? So che ha lavorato. Confinato. Duro. Sotto diversi padroni. Lasciando il certo per l'incerto. Con soluzioni di contratto d'accatto. Discutibili. Sui meccanismi di smaltimento.
- Del resto per i meccanismi di smaltimento lì c'erano spazi diversi. E macchine diverse. E il gas. Era diverso. Il gas. Lì. Soprattutto. E il rapporto. Ecco. Di forte impatto. Coatto il servizio. Stretto stretto. C'era. E loro anche. Che impegnavano lavorazioni inverse. E il prodotto finiva a diverse industrie di trasformazione. In deroga e con molte incertezze.
- Si tratta d'incertezze e deroghe inverse? Si trattava di esitazioni? Di scarse convinzioni. Oggi. Di perplessità trepida. Che sciarra. Da quel che raccontava. Almeno lui. La terra. Il dubbio fendeva in profondità. Gli sguardi che avvitavano nei fanghi. Per quello che temeva. Dissipazione sciatta. Putrefatta. Da quel che si sapeva. Era un deserto d'ossa. Una grande fossa al centro. E dentro un canale di scolo. Il dolo? Coaguli di anime in balia dei mediatori. Frali. E della meraviglia. Che attanaglia. E spariglia. Nella speranza. Quando è resa tersa. Persa nelle divagazioni. O nelle titubanze. Quando non c'è da fare i conti con la realtà per incapacità di calcolo mentale. Prefigurazione. Mi disse. Banale. O insufficiente. Appunto. Il canale in digredire era fecale. Che digrumava lo scolo. Il dolo? Chissà se limitato allo schiacciamento dei cervelli. Laboriosamente scaltri. O disadatti. Meglio perversi. Contro terra, Senza sbadacchiatura. In mucchio. Io. Ecco. Che risucchio il tramonto in un sospiro ogni volta che il viola spento ripropone quel livido fetore. Secondo la ricetta del giorno. Per alimentarmi sulla via del ritorno.
- Del resto so che gli alimenti sono ormai contaminati. Lo dissero. Del resto. Lo dicono. Sai. Sul cammino di ritorno. Mentre il dubbio fende in profondità. Gli sguardi avvitano nei fanghi. Di quello che vedeva. Taceva. Verso l'esterno. In eterno gioco di pendolarismi gestuali. Tu. Integrali nel senso. Noi. Per pregnanza di archetipi dispersi nelle farine scure e nelle pule, Sparsa ogni tradizione nella bieca piega dei giorni malati. Pietra per pietra. E distanti. Per falsificazione dai tegumenti dell'organico equilibrio di pensiero. Un venefico siero per fosforici sentimenti d'iniquità. Al sacco. Una colazione sull'erba del nostro presente. Come una volta intossicata di maledizioni. Per campi e corsi d'acqua. Per gli animali. Poi. Nelle brume. Dove. Tu. Tu. A lungo. Tu. Pei monti. E lo spavento. Per noi. Buoi. E voi. E specialmente noi. Non abilitati. Mai. Illogici nei movimenti. Fummo bloccati. Stretti nella morsa. Dunque. Appesi. Con tutta la fatica dei collegamenti. Nelle crepe del giorno. Mentre la notte è riservata ai suoi favori. Di energumeno attivo. Radicalmente negativo. Fenomeno di coda che attesta incredibili alterazioni e progressive. Pervertimenti pervasivi in pervicaci consensi.
- Si tratta di disordini? Di giochi pervasivi? Di chi mi parli? Di tarli? Logiche asciutte? O di bestemmie? Dì. Qui tutto è un po' artefatto. Pervertimenti attivi? Lo credo bene. Se l'indirizzo è quello dei salumifici. Degli artifici astuti. Anche passivi. Bruti. O dei saponifici di agglutinamenti ideali. Speciali. Lucidi nella loro perversità. O banali forse nella terribilità dell'invasamento. Caso per caso. E svisamento della quiete. Vis-à-vis. Svasati comme il faut. A sfasamento esterno. Loro. A slittamento interiore. Noi. O della ragione dei lager. Gulag? La terra. L'orizzonte. La fronte contro il sole. Lui. E le nebbie delle ciminiere. È un nodo che provoca sgomento. Un modo antico dopotutto. Un approdo di secoli che si riaccostano e si fondono nei flussi di storie senza storia. E di storia con molta gloria e pochissima memoria di volti e di respiri.
- Del resto c'è chi bada solo al sodo senza mai memoria di volti. E di contatti. Che chiodo scaccia chiodo. E schiaccia oltremodo nidi di rondini assopite in sempiterni inverni dello scontento. Più vostro che nostro. O loro. Più tuo che mio. Direi. E c'è chi riproduce dadi da brodo. In questo modo. Un lodo che non mai sfiorerà quel filo dell'accordo di cui si parlò. A loro. E si parlava. Di cui tu hai parlato. Un giorno. Mulinando di percorsi in stanze di maraviglie scomparse agli occhi d'innocenti perdenti e genti aggredite da avvincenti giochi di sirene e incanti. O da discorsi persi in regolamenti fasulli. Ecco. Da avvicinamenti scorretti. Miti miti. E raffreddamenti alterati negli equilibri di settore. Errore. Errore. È l'ovvietà che ti preoccupa? Un coup de dés jamais n'abolirà il fetore che si perde nel grigio della mattinata. La terra sferra stupefazioni putride. Coperto il cielo da nubi dense. Intossicate anch'esse.
- Si tratta d'intossicazioni per giochi di rilancio. Ad alta sorveglianza. Con tutto ciò che di contraddittorio c'è. C'è la questione della legge e l'ordine. C'è chi produce sicurezza. Chi infrange parabrezza. C'è chi produce fertilizzanti. Chi emollienti. Unguenti paraflou. Creme alla placenta naturale. Sventrata la vacca e salvato il vitello. Lui. Per uno squallido tranello in sottrazione di spesa. Non molla più la presa. Mollala tu che in fondo ti conviene. Dissero.
- Del resto cos'è che è conveniente qui? Tutto sembra distorto. Dagli e dagli a smantellare istituzioni. Quale la parte lesa? Quale sarà recuperata? Non riesco a distogliere lo sguardo. Né dall'una. Una. Né dall'altra sorte. L'altra. Che di parte in parte si scompone il compartimento del suddito ubbidiente. Del servo zelante. Inconfutabilmente. Un nervo dolorante. Teso. In dipartimento. O del plaudente ebbro d'idiozie sistemiche. E sistematiche appunto. Parte dopo parte in un puzzle grottesco. Che si compone a scatti. Come magnetizzato. E tira nel delirio visioni orrende di abiezioni. Come fu. E fu. E si scompone poi. E si ricompone. In un tragico patchwork. Nel campo. Pusignando animelle. Al libero mercato.
- Si tratta di godere di piazze liberali con aspirazioni innovative. Progressive. Mercati dell'ardire. Come qualcuno disse. Ad arte. Onde legittimare. Tangibilmente. Vulnerabilità alternative. Comprensive di aspirazioni terroristiche. Futuristiche attività discriminanti sul piano del crimine più spicciolo. O della minaccia faccia a faccia che straordinariamente si pubblicizza con un passacarte in più e uno straccetto in meno. Come fu. Per te. Controlla bene ora. Guardati le polizze. Sorvégliati le scorte. Ché si parte per lo scivolo del grasso da consorzio e del riciclo degli oli emulsionati. In un sussultare nauseabondo.
- Del resto la nausea sussultoria già tirava a singhiozzo. E tira tira nei macelli. Tira negli sfracelli internazionali. A tutto tondo. Tira. Oggi. In squarci e sconquassi. Dove sempre c'è da recuperare un utile d'impresa. Tra orizzonti fumosi. Dove la terra. Destini sanguinosi e sporchi. Dove orchi balordi di sistema. E dove stracci. Dove una volta si recuperava la materia prima nei grossi mattatoi. E si recupera. Strabocchevolmente. Oggi. Un servizio consistentemente drammatizzato. Un filo diretto di umori. Malumori. Sieri. Di cimiteri in vendita. Di cuori che come sempre accordano la rima. Rifondono suoni e sentimenti infantili. E riaprono speranze in ombra tra paccottiglie di banalità obbedienti. Ieri. In scolo purulento nelle canaline. Dietro i reticolati. Oggi. Insopportabilmente. Da carni pulsanti. Anche. E i visceri lì. Proprio in faccia. Che ti piaccia o non ti piaccia. Terra terra. Passo dopo passo. Faccia a faccia con la morte in un corpo palpitante. Battente ancora. Ma né vivo né morto. Con la luce in bave sull'intonaco. Che non lascia traccia. I salumifici reclamizzano insaccati bastardi. Molli di poltiglie muscolari. Le nubi paralitiche rispolverano spezie arrugginite. È la pubblicità codarda che soffoca l'informazione. Il vecchio sistema della persuasione mediatica strangola l'efficienza comunicativa. E attiva monopoli sugli scarti dei riparti dei servizi.
- Si tratta di monopoli. Di servizi deviati. Di scarti. Così. Negoziati ai piedi dei potentati. Della minaccia. Della caccia al pericolo. Delle foschie globali. Del fuorigioco nell'interfaccia che attira l'attenzione. Con colpi di teatro. Mala fregnaccia. Che scatta in dissuasione. Rilancia e fa spettacolo di cartastraccia. Di lingua. E di linguaccia. Che dà corpo alle voci dei mercati generali. Come la parolaccia d'antan. Con incremento di vendite e di scarti. La città. La terra. Infine tutti giù per terra. Con l'intenzione del massimo profitto. Circoscritto in tragitto breve.
- Del resto quando speculano al massimo profitto sei fritto. La città. La terra. L'ansia ti invita a nozze. Sconfitto in toto. E allora non si abbassa il gradiente di tensione. Sei nel rigurgito. Tu. Coglione. Dello spurgo chirurgico del sistema delle divisioni. A volume martellante. Come fu. Allora. Com'è? Che nell'operazione letale non si butta niente? Niente di niente. E più niente nella responsabilità criminale. Qui tutto è veniale. Ché si cumulano scarti panoramicamente. Non si buttava come non si butta niente. Nemmeno quella merda. Più. Sarà buttata. Succulenta. Nell'intestino dei maiali.
[...]

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