Quando poi ci si imbatte nella biografia di Giovanni Maria (o Gian Maria o Giommaria o Zuanne Maria) Angioy, si rimane sconcertati per come un tale personaggio, protagonista di una breve ma cruciale stagione della storia di quello che sarebbe diventato il Regno d’Italia, non trovi alcuno spazio nei manuali scolastici italiani. Eppure, la sua complessa personalità, sostenuta da una statura intellettuale e morale di prim’ordine, offre notevoli spunti di riflessione etici, politici ed economici.
Nato a Bono nel 1751 in una famiglia di agiati possidenti insignita del Cavalierato, Giommaria rimase orfano in tenera età e venne affidato agli zii materni che ne assicurarono il corso di studi, prima a Bono e successivamente a Sassari dove si laureò appena ventenne in Legge. Nel 1773 giunse a Cagliari per fare praticantato presso il giurista Gavino Nieddu, ma abbandonò ben presto, dopo aver ottenuto, in quello stesso anno, la cattedra di Diritto civile nell’università della capitale sarda. L’apice della sua carriera fu la nomina nel 1789 a Giudice della Reale Udienza, una delle cariche più prestigiose del regno. Intanto, nel 1781 si era sposato con la ricca borghese Anna Belgrano e, grazie ai cospicui capitali, intraprese attività industriali innovative, cercando di coniugare lo sviluppo economico col miglioramento delle condizioni dei lavoratori, anticipando in qualche modo il Socialismo utopico di Saint-Simon. In particolare, introdusse in Sardegna la lavorazione del cotone con lo scopo di produrre un filato adatto alla confezione delle vele, in modo da stimolare il rafforzamento della carente flotta peschereccia e mercantile dell’isola.
Al contempo, iniziò ad interessarsi progressivamente all’attività politica, giungendo presto a divenire uno dei principali esponenti dei progressisti antifeudali. La sua visione politica, influenzata dal pensiero illuminista e successivamente dal vento rivoluzionario che provenivano dalla Francia, rimase comunque lealista e moderata, reputando più facilmente raggiungibile il miglioramento delle condizioni dell’isola attraverso il dialogo con il potere sabaudo, piuttosto che con una rivolta violenta atta a sovvertirlo. A riprova di ciò, l’impegno profuso, anche finanziariamente, nell’organizzare la vittoriosa resistenza al tentativo d’invasione delle armate rivoluzionarie francesi del 1793.
Nonostante la prestigiosa vittoria sui francesi dovuta principalmente ai volontari sardi, il Governo Sabaudo si dimostrò sordo alle richieste riformiste avanzate dagli Stamenti. Così, il 28 aprile del 1794 il popolo cagliaritano insorse nella cosiddetta “die de s’acciappa”, costringendo il Vicerè Balbiano e oltre 500 funzionari piemontesi ad abbandonare l’isola e mettendo il potere nelle mani degli Stamenti e della Reale Udienza. Angioy si prodigò nel moderare gli eccessi della rivolta, attivando un doppio canale diplomatico coi Savoia (per ottenere il riconoscimento delle richieste degli Stamenti) e con la Francia (per ottenere protezione, nel caso di una repressione violenta dei moti da parte dei piemontesi). Il re Vittorio Amedeo III parve assecondare le richieste, nominando due sardi, Girolamo Pitzolo e il marchese della Planargia Gavino Pagliaccio, rispettivamente Intendente Generale e Generale dell’Armi. In realtà, entrambi erano esponenti dell’ala più reazionaria dei patrioti sardi ed in questo modo il re favorì la divisione del movimento in tre partiti: i feudali, i moderati e i democratici, questi ultimi capeggiati dall’ Angioy. Il popolo, non appena resosi conto della situazione, riprese la sommossa e nel luglio del 1795 Pitzolo e Pagliaccio vennero trucidati.
La rivolta intanto dilagava in tutta l’isola. Al nord, in particolare, i feudatari inizialmente cercarono di reagire ai moti popolari, asserragliandosi a Sassari e rivendicando una maggiore autonomia da Cagliari. Ma alla fine del 1795 i rivoltosi assediarono e conquistarono Sassari, mentre i democratici cagliaritani alzarono la voce, chiedendo l’abolizione del feudalesimo e un maggior coinvolgimento dei sardi nelle scelte politiche del Regno. Il 3 febbraio 1796 il nuovo Viceré Vivalda nominò l’Angioy Alternos, vale a dire sostituto plenipotenziario del Viceré, e lo inviò nel nord dell’isola per mettere ordine. Probabilmente, gli venne dato l’incarico non solo per il prestigio di cui godeva, ma anche per allontanarlo da Cagliari, sperando, vista la sua posizione antifeudale, che si compromettesse con i rivoltosi.
L’Alternos compì un viaggio trionfale di due settimane per raggiungere Sassari, ovunque accolto come il liberatore. In ogni paese in cui fece tappa, ascoltò le rimostranze del popolo, garantendo di farsene portavoce presso il Viceré. Giunto nel capoluogo settentrionale, attuò una serie di provvedimenti economici e sociali per migliorare le condizioni del popolo. I feudatari sassaresi, di comune intesa con il potere sabaudo, iniziarono una campagna diffamatoria nei suoi confronti, denunciando persecuzioni inesistenti, fino ad inventarsi un fantomatico assedio di Alghero da parte dell’ Angioy, il quale decise di passare alla controffensiva. All’inizio di giugno si mise in marcia verso Cagliari, con gli stessi ritmi del trionfale viaggio d’andata, raccogliendo volontari in ogni paese. Ad Oristano, gli giunsero brutte notizie. Innanzitutto, la pace firmata tra i Savoia e i francesi rendeva molto più problematica l’ipotesi di un sostegno dei transalpini alla rivoluzione sarda. In secondo luogo, il Viceré lo aveva destituito dalla carica di Alternos e aveva messo una taglia su di lui e sui suoi collaboratori, offrendo al contempo l’amnistia a tutti i miliziani che avessero deposto le armi. Infine, decise l’invio di truppe numerose e ben organizzate contro l’improvvisato esercito angioiano.
Angioy tentò di resistere a Oristano, ma anche l’atteggiamento del popolo, sobillato dai feudatari, iniziava a mutare. Con i suoi fedelissimi ripiegò verso nord, rifugiandosi prima a Thiesi, indi a Sassari, per poi imbarcarsi clandestinamente da Porto Torres alla volta di Ajaccio e da lì verso Livorno. Nella città labronica e successivamente a Genova ebbe incontri con diplomatici e ufficiali francesi di stanza in Italia, tra i quali lo stesso Napoleone, perorando la causa sarda, ma il fresco trattato di pace coi Savoia obbligò i francesi a non dargli ascolto. A quel punto, ottenuto un salvacondotto, tentò un chiarimento con Torino, ma resosi conto che si stava tramando per assassinarlo e giuntagli notizia delle persecuzioni scatenate contro i suoi rimasti in Sardegna, fuggì rocambolescamente dal suo alloggio di Casale, riparando prima a Genova, per poi raggiungere Parigi.
A Parigi divenne ben presto portavoce degli esuli sardi e, attraverso l’invio di memoriali, tentò costantemente il coinvolgimento della Francia. Cosa che ottenne alla fine, ma la caduta del Direttorio prima e una fuga di notizie poi (quando Napoleone, coadiuvato anche dallo stesso Angioy, aveva già preparato i dettagli), fece rinviare a data da destinarsi l’operazione. L’Angioy continuò indomito a perorare la causa sarda fino alla morte che lo raggiunse a Parigi il 22 marzo del 1808.
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