Giovanni Papini, Firenze, Ponte Vecchio

Da Paolorossi

Se torno a casa dal Ponte Vecchio - di sera - mi par d'entare a un tratto in una scorciatoia che meni al paradiso. (Del paradiso, almeno, come se lo figurano le ragazze dell'Impruneta e le spose di Sancasciano). Da tutte e due le parti gli ori e gli argenti covati dalle perettine elettriche rischiarano il mio cammino coi loro fulgori d'occasione. I raggi solari dell'oro e i riflessi ghiacciati dell'argento feriscono rapidamente i vetri delle automobili, gli occhi dei forestieri, i campanelli delle biciclette, le stelle dei soldati. Un incrocio di luci, una zuffa di scintille, una gara di splendori occupa e riempe lo stretto corridodio di fuoco vivo e morto. Gli orefici, in fondo alle botteghine vuote, di nanzi a' banchi verdi, seggono calmi e beati come se quella ricchezza fosse lì per il loro piacere. Anche il lastrico sembra più prezioso che nell'altre strade e appena vien la notte luccica qua e là come se le scarpe dei passanti fossero risuolate d'argento.

Le pietre false delle vetrine sforzano le loro trasparenze per dare ai più poveri l'illusione dei tesori d'oriente e dei diademi delle madonne. I mille orologi esposti in fila segnano tutti un'ora diversa per far capire che sono adatti a tutte le vite e che ognuno può scegliere la sua ora. Al sommo dell'arco, giù calante dal nero, una candida sfera elettrica fa pensare che il ponte abbia una luna tutta per sé.

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(Giovanni Papini, "La mia strada" da Cento pagine di poesia, pag.41 e 42 - Vallecchi Editore - 1920)

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