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Giro della Padania: la politica del regionalismo

Creato il 08 settembre 2011 da Elvio Ciccardini @articolando
Giro della Padania: la politica del regionalismo

Circa 200 corridori per una ventina di squadre, sotto l’egida della Federazione Ciclistica. Eppure, il Giro della Padania sta diventando un evento fantozziano, tanto ridicolo quanto paradossale…

Da un lato ci sono i contestatori, chiamati “comunisti”. Sono persone che si mettono ai lati della strada e sfogano la loro rabbia o il loro dissenso con calci, sputi e schiaffi. Dall’altro lato ci sono gli organizzatori che, per tentare di uscire da questo caos, fanno scelte che rischiano di alimentarlo.

Così è avvenuto a Savona, quando, ad un certo punto, i ciclisti si sono persi per strada. Un pò come accadeva nelle prime corse. Per evitare i facinorosi comunisti contestatori, infatti, il percorso è stato cambiato all’ultimo minuto.

Sicuramente, ha ragione Francesco Moser, quando afferma che senza le proteste, il Giro della Padania sarebbe passato inosservato agli occhi dei più. Indubbiamente, ha meno ragione quando afferma che la “Padania esiste”. Perchè non è così.

La Padania è un “cavallo di Troia” utilizzato da una classe dirigente nata da comuni e province per raggiungere i palazzi del potere politico centrale, quindi nazionale ed omologarsi ad esso. La Lega Nord si nutre della Lupa Romana ormai da troppi anni, perchè possa essere credibile il suo desiderio di nazione indipendente.

Ed è da questa impostazione comunicativa che partono questi incomprensibili controsensi sociali. Uno degli elementi che ha da sempre unificato la nazione, tutte le nazioni, è lo sport, che attraverso il simbolo di una bandiera fa sospirare e tifare intere popolazioni unite da una unica speranza, vedere i propri atleti vincere. Anche il calcio, sport campanilistico per eccellenza, è elemento di unità nazionale, tanto che diversa letteratura scientifica sociologica ne ha analizzato la portata e scritto intere pagine di studi e ricerche.

Uno dei pochi “non meriti”, per non dire “l’ennesimo demerito” della “non-cultura” leghista è quello di essere riusciti a creare discordia e divisione anche con la pratica dello sport. Come se non bastassero “il dito medio” e le “frasi razziste da sottoproletariato urbano” dei suoi esponenti.

Che la politica utilizzi come strumento collante e socializzante lo sport è normale. Sono iniziative promosse sia a destra che a sinistra. Nelle forme più spicciole a livello locale, le corse campestri delle varie feste partitiche estive, fanno storia e scuola.

Tuttavia, un errore di fondo c’è negli esperti di comunicazione della Lega Nord. In un contesto chiuso, quale la festa di partito, ci si può, e si deve, presentare per quello che si è. Le persone che partecipano vogliono un’identità definita. Ma quando si organizzano eventi di portata non locale, poichè il giro attraversa l’intero nord italia, tra cui l’Emilia Romagna, allora non si può, e non si dovrebbe, comunicare con forme e strumenti che vanno contro i valori dei più. Anzi contro l’identità culturale e civile dei più.

Il rischio è che le persone si organizzino e manifestino tutto il loro dissenso non per l’evento sportivo in sè, nemmeno per gli atleti, quanto per chi lo organizza e per quello che chi lo organizza fa e rappresenta, a prescindere dal giro stesso.

E’ vero che ci sono motivi ancor più gravi per scendere in piazza e affermare il proprio dissenso. Così come è vero che il dissenso non è per la gara ciclistica in sè, ma è una scusa per attaccare il malgoverno leghista che è la brutta copia scriteriata e provinciale, nella peggiore accezione del termine, della classe dirigente nazionale della prima repubblica.

Ormai gli italiani sono sfiniti da una manovra correttiva che è diventata un minestrone in cui ognuno inserisce il proprio ingrediente. Infatti, se a pochissimi è chiaro cosa si è deciso, ai più è evidente che la pietanza è avvelenata. Proprio per questo motivo, il veleno accumulato nel malgoverno prende la via dello sfogo, sicuramente incivile, di quella che sarebbe stata un’anonima iniziativa politica.

In conclusione, chiamare i contestatori “comunisti” e non per il loro vero nome, cioè “contestatori”, casomai fosse necessario ribadirlo, è un’altra scelta comunicativa. Quella che conferma la volontà provocatoria di una classe dirigente “nordista”, che cerca lo scontro. Speriamo solo che la vicenda non evolva verso la peggiore forma di contrapposizione politica nota al nostro paese, quella dello scontro tra fazioni in cui gruppi di contestatori “comunisti”, pro Italia (forse si dovrebbe chiamarli nazionalisti), si trovano ad essere contrastati da gruppi di contro-contestatori “leghisti”, pro padania (sicuramente secessionisti).

In ogni caso, sarebbe meglio stendere un velo pietoso sull’intera vicenda, che non ha campioni da portare alla storia, ma solo macchiette politicanti da proporre in vignetta.



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