Maledetto poeta è il cantautore come lo ricordano i suoi amici, le sue donne, estimatori e collaboratori. La disordinata miscellanea di testimonianze raccolte da Gisela Scerman, e ripubblicate oggi da Arcana, è forse l’unico modo giusto per rendere omaggio allo spirito anarchico del livornese, che così poco si presta alle celebrazioni.
Piero Ciampi morì all’incirca trentadue anni fa, il 19 gennaio del 1980 per l’esattezza, all’età di quarantasei anni. Sulla lunga coda dell’anniversario Arcana ha ripubblicato un libro che Gisela Scerman aveva già fatto uscire con Coniglio Editore sette anni fa.
Maledetto poeta è qualcosa di più che una raccolta di testimonianze biografiche sul poeta di Livorno. Vi si trova di tutto, dalle parole di chi lo ha conosciuto personalmente condividendo con lui esperienze artistiche e importanti momenti di vita (fra gli altri i compositori Gianfranco Reverberi e Gianni Marchetti, autori delle musiche di tante sue canzoni, Nada Malanima, l’ex calciatore e poeta Ezio Vendrame) alle interviste a musicisti che lo amano (per tutti cito Pippo Pollina e Claudio Lolli) o che ne hanno mantenuto vivo il culto (Luca Faggella è uno di questi), da un colloquio con Fernanda Pivano a saggi critici di notevole spessore (molto belli quelli del livornese Marco Lenzi). Infine, a conclusione del volume si può leggere la trascrizione di una serata ciampiana in un locale di Castiglioncello, un lungo monologo di rabbiosa e stralunata poesia.
L’accumulo un po’ disorganico di tutti questi materiali non nuoce minimamente al libro. Maledetto poeta, non è, non vuole nemmeno essere un saggio su Ciampi. E’ piuttosto una rapsodia, un susseguirsi di spunti e temi, di approfondimenti critici e scarti poetici che intriga e talora spiazza il lettore. Va letto con calma e pazienza, magari intervallando la lettura con gli ascolti dei dischi. D’altronde la stessa autrice ammette, nell’incipit dell’intervista a Vendrame, la difficoltà del raccontare Ciampi senza togliergli qualcosa. Anche se in lui arte e vita, poesia ed esperienza quotidiana sono perfettamente coincidenti. L’ubriaco protagonista de Il vino, che si gode le stelle, guardandole dall’acqua sporca di un fosso in cui è caduto, non è un’invenzione poetica.
Ciampi era un alcolista che, secondo la descrizione di una donna che lo ha amato, viveva “di alcol, di manciate di optalidon, di sigarette forti senza filtro”. Se ne deduce che il fallito protagonista del surreale monologo Te lo faccio vedere io chi sono non era certo inventato, come non lo era il disperato giocatore di un altro suo pezzo. C’è sempre qualcosa che sorprende, un qualche dettaglio spiazzante nella sua poesia.
Ciampi racconta il suo turbolento mondo, la sua vita a precipizio (per citare il precedente titolo di questo libro) con una voce del tutto particolare che fa pensare, come scrive Marco Lenzi, ad una lettura intonata, più che ad un canto vero e proprio. Qualcosa di simile a certo blues arcaico (la Pivano parla addirittura di rap…) ma anche immerso nella tradizione italiana del “recitar cantando” (la Pivano parla addirittura Poliziano…). Niente a che vedere con la colta e tersa raffinatezza di De Andrè, meno che mai con gli sterili esercizi di stile di molti (quasi tutti) i cantautori degli anni 60-’70. Basta ascoltare pezzi come Cristo fra i chitarristi, o Dario di Livorno, per capire la sua bellezza ruvida.
Per tutto il libro circola, più o meno esplicitamente il tema della necessità della riscoperta di questo splendido artista: ma personalmente non credo che Piero Ciampi potrà mai diventare un’icona di massa, un feticcio adatto a tutti i culti com’è avvenuto, purtroppo, per Fabrizio De Andrè, Luigi Tenco o Gorgio Gaber. L’autore di Livorno e Tu no è troppo scabro, troppo realmente anarchico, troppo autenticamente maudit per piacere al gran pubblico. Lo si ama radicalmente o lo si detesta; non si può ascoltare con indifferenza. Impossibile utilizzare la sua musica come arredamento sonoro e la sua voce non sarà mai adatta ad essere accompagnata, post mortem, da una qualche orchestra sinfonica. Almeno a lui si risparmieranno futili serate televisive alla memoria. Rimarrà, forse per fortuna, patrimonio solo di quanti, e non sono pochissimi, vedono in lui un narratore dell’insopportabile fragilità della condizione umana.
Marco Buttafuoco