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Gita domenicale, o l’Italia che non vorresti vedere.

Da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

di Francesca Montomoli.Si dice il peccato e non il peccatore, perciò non farò nomi espliciti lasciando all’immaginazione il compito non troppo arduo di localizzazione. Del resto se tutto il mondo è paese questo è ancor più vero per il Bel Paese dove, fatte salve le dovute eccezioni, l’episodio che vado a narrare può ben adattarsi a una miriade di siti e località.

Agosto è sinonimo di vacanza e laddove il tempo o i mezzi sono limitati non è difficile optare per alternative estemporanee: le mete d’eccellenza da condividere con i turisti stranieri, da sempre innamorati della nostra penisola, abbondano, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Perciò, vinti dalla noia di una settimana abulica e appiccicaticcia, mio marito ed io cediamo alla tentazione di muoverci da casa, nonostante viviamo a due passi da uno stupendo mare (un po’ troppo affollato per i miei gusti nonostante o forse proprio grazie alla crisi che ha tenuto sul suolo italico frotte di cittadini esterofili).

Il caldo, si sa, ottunde la mente e rallenta le capacità analitiche.

In barba ai bollini rossi e ai diagrammi delle temperature in crescita ci lasciamo sedurre dai servizi del TG, che propinano in tutte le salse i luoghi dell’arte, e prendiamo la nostra decisione di omologarci al rito della gita nel periodo di Ferragosto.

Gita culturale.

Scegliamo come meta un noto museo archeologico, inutile sottolinearne la levatura mondiale, optando per il fratello minore (ma appena appena) più prossimo a casa e quindi raggiungibile con comodità e senza necessità di problematici pernottamenti.

Memori di passate vicissitudini dedichiamo il venerdì alla pianificazione dell’evento “spippolando allegramente in cerca di info su internet”.

Il bizzarro orario di apertura nei giorni festivi avrebbe forse dovuto metterci sull’avviso, ma non ci ha strappato niente più di un commento di commiserazione, avvezzi da troppo tempo ormai ad ogni forma di scarsa fruibilità del patrimonio nazionale. E, giusto per non farci mancare niente, abbiamo deciso di spostarci in treno. Perché? Perché nonostante il tragitto in auto resti nominalmente più conveniente del biglietto A/R per due persone (a dispetto dei folli aumenti del prezzo dei carburanti) una volta aggiunto al computo il costo del parcheggio metropolitano (non custodito, non sia mai!!) inevitabilmente si sfora e di parecchio.

Così l’indomani ci siamo alzati presto per raggiungere la stazione ferroviaria. Naturalmente non la più vicina perché, oltre a non essere più dotata da tempo immemore di una biglietteria (manco automatica), è stata cancellata dalle fermate della maggior parte dei treni.

Lasciata l’auto nel parcheggio non lontano dalla stazione di partenza (almeno questo gratuito, per fortuna) facciamo i conti con la prima delle nostre ingenuità: essendo in piena stagione turistica abbiamo scioccamente presunto che la biglietteria non fosse chiusa.

Piccolo attimo di panico.

Mia figlia, che abitualmente si sposta in treno, ha più volte lamentato l’inefficienza delle “macchinette” alternative (non posso trascrivere i suoi apprezzamenti sul servizio perché una volta depurati dagli improperi ne resterebbe ben poco).

Ci guardiamo sgomenti negli occhi: e se fossero ancora guaste? L’ombra della tentazione di voltare la schiena e tornare sotto le lenzuola attraversa fugace lo sguardo di mio marito.

Sollievo!!

Le macchinette della biglietteria automatica sono state sostituite con l’ultimo modello  touch screen dall’elegantissima livrea tricolore.

Sconforto.

Lo schermo ci informa che, oltre a non accettare contante, a causa di un temporaneo disservizio è in grado di incassare regolarmente il pagamento ma non di provvedere alla stampa del relativo titolo di viaggio.

Perplessità.

Non era più semplice apporre un cartello di “fuori servizio” piuttosto che far perdere tempo prezioso nell’esecuzione dei vari passaggi fino alla fatale scoperta della sibillina comunicazione?

Usciamo dall’area di attesa per tentare la sorte con la seconda macchinetta, quella prossima alle piattaforme.

Anche qui niente contante. Il tempo scarseggia, la procedura è lenta ed ogni incertezza riporta al punto di partenza.

Nervosismo.

Rammento con nostalgia quando andavamo tutti in ferie col treno. Sale d’aspetto zeppe come scatole di sardine, biglietti da compilare a mano, impiegati scorbutici ma efficienti che non ti facevano perdere il treno e in ogni caso… potevi supplire a bordo perché il personale era facilmente reperibile e i capotreni se ne accorgevano se eri salito al volo all’ultimo momento e non tentavano di appiccicarti un paio di stazioni in più…. Altri tempi, altri treni, altre abitudini.

Riesco infine a ottenere l’agognato biglietto (perdonate ma io ancora lo chiamo così) a 5 minuti dall’arrivo del treno che, caso strano, è in orario e non è stato soppresso (fatto di per sé quasi magico) quando arrivano due anziane signore trafelate con una banconota in mano e la preghiera di aiutarle perché hanno necessità di partire all’improvviso e proprio non sanno da che parte rifarsi “con quegli aggeggi”.

Avverto che “l’aggeggio” non prende contanti.

Costernazione.

Ricerca affannosa e… per fortuna aveva il borsellino giusto!

Per farla breve, raggiungiamo la piattaforma appena in tempo e finalmente partiamo alla volta della nostra meta. Ben oltre due ore di viaggio per un percorso che a volo di piccione richiederebbe un tempo infinitamente minore. Pazienza. Ormai siamo nella nostra città d’arte e, piantina turistica alla mano, ci dirigiamo verso il Museo a passo sostenuto e senza divagazioni: l’orario di apertura è tiranno, vogliamo avere il tempo di visitarlo tutto prima di essere invitati ad uscire.

Notiamo quasi con piacere che le vie e le piazze non sono sovraffollate, il rito del “tutti al mare” ha funzionato anche quest’anno e non ci sono code interminabili agli ingressi.

Nella fattispecie al nostro Museo è appena scattato l’orario di apertura e non c’è coda. A dire il vero non c’è nessuno.

Ci coglie un dubbio, ma sarà davvero qui? Bhé , sta scritto sulla targa. E poi è aperto. Entriamo.

Non è come mi aspettavo, l’atrio sembra un luogo poco curato,  dall’aspetto dimesso e insignificante, con un vago odore di stantio. Il casottino della biglietteria pare uscito da un film muto, ma non ha l’aspetto di un pezzo di antiquariato, sembra piuttosto il ritratto di un forzoso risparmio sulla manutenzione. Locandine vecchie e nuove sono disposte senza garbo, danno un senso di disordine e disorganizzazione, sgradevole.

Penso, con una punta di dispiacere, a quale impressione possa lasciare in uno straniero che visita l’Italia per la prima volta e spero che non gli capiti di iniziare proprio da qui.

L’impiegata mi guarda immobile, con la faccia grassoccia appoggiata sulla mano sinistra. Potrei scambiarla per una statua di cera, non fosse per quella goccia di sudore che scivola dall’attaccatura dei capelli malamente raccolti e va a morire sulla stanghetta degli occhiali.

Attaccato al vetro un cartello in tre lingue indica le tariffe in grassetto e fra me e me mi rallegro del prezzo contenuto.

<Per due, grazie.> 

Lei seguita a fissarmi inespressiva, poi replica:

<Sì, ma il museo in questo periodo è decimato.>

Decimato? Come uno squadrone di cavalleria sotto il fuoco nemico? Immagino già scenari  di rocamboleschi furti con scasso quando completa la frase.

<Tutto il reparto xxxxx (si dice il peccato non il peccatore rammentate?) in questo periodo è chiuso.>

Presa in contropiede mi lascio sfuggire un <Ma su internet non è segnalata la chiusura in questo periodo.>

<Non c’è perché le chiusure vengono decise così.>

Così come? Mi chiedo in silenzio, inarcando un sopracciglio in modo plateale e rimanendo ostinatamente piantata lì davanti.

Seccata lei ammicca verso destra e specifica <Mancanza di personale.>

Lancio un’occhiata circolare nell’atrio e scopro tre figure sfumate dal controluce di una finestra stretta e alta, di quelle antiche, coi vetri a riquadri. Silenziosi, inglobati nella mobilia e nel torpore della penombra, assistono alla scena senza battito di ciglia. Evidentemente costituiscono l’intero personale presente.  La perlustrazione visiva si conclude nuovamente sul volto della signora del botteghino, che nel frattempo ha spostato la faccia sull’altra mano e aggiunge stancamente <E poi oggi si è rotta l’aria condizionata.>

Abbassa lo sguardo sul giornale manifestando così un netto disinteresse per ogni ulteriore sviluppo della conversazione.

Allibita, non faccio in tempo a commentare perché mio marito esplode indignato trascinandomi nell’afa della piazza.

<Torniamocene a casa.>

Non intendo arrendermi e propongo almeno un paio di alternative rese appetibili dalle file d’attesa contenute. In definitiva siamo qui e quei siti non li abbiamo mai visitati.

Cavo fuori dalla borsa cartina e ventaglio, perché nel frattempo la calura è andata crescendo, e ci avviamo come bersaglieri incontro al nostro destino.

Uno dopo l’altro scopriamo gli ingressi sbarrati. Orario di visita consentito nel pomeriggio. Avanzo timidamente l’ipotesi, subito scartata, di un boccone consumato durante l’attesa perché bisogna fare i conti con l’orario e le fermate dei treni per il rientro, lasciandone almeno un paio di scorta nell’eventualità di qualche soppressione.

A metà fra l’indignazione e lo scoramento prendiamo al volo il primo treno utile consapevoli che oltre alla gita ci saremmo persi pure il pranzo domenicale.

E tanti  ossequi al Bel Paese, culla d’arte e civiltà.

Featured image, la Sfinge che per fortuna si può vedere all’aperto.


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