E’ morto nove anni fa ma non lo vogliono lasciare in pace, non ancora. A Marco Pantani – già vittima, in vita, di processi non solo mediatici poi conclusisi nel nulla – potrebbe toccarne un’altra: il prossimo 18 luglio il suo nome, assieme a quello di altri, potrebbe essere eliminato dalle classifiche del Tour 1998, quello che vinse. Lo ha dichiarato a L’Equipe Pat McQuaid, presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale, e lo ha fatto senza scherzare come dimostra, fra l’altro, Laurent Jalabert, ex ciclista francese, che ha lasciato il ruolo di opinionista sportivo per preparare la propria difesa. Invece Pantani no, lui non potrà difendersi: la sua maglia gialla è davvero a rischio.
E questo,converrete, è semplicemente vergognoso. E’ vergognoso che si tenti di riscrivere quindici anni dopo le classifiche di competizioni durante le quali, fra l’altro, i controlli venivano regolarmente disposti ed effettuati. E non solo durante, anche prima: come infatti qualcuno ricorderà, proprio pochi giorni prima di quel Tour de France 1998 ad essere travolta dallo scandalo del doping e ad essere estromessa dalla Grande Boucle fu un’intera e importante squadra, la Festina degli Zülle, dei Virenque e dei Brochard. Segno che, evidentemente, anche allora il doping veniva contrastato senza sconti. Questo il signor McQuaid dovrebbe saperlo. O ricordarlo.
Esattamente come dovrebbe ricordare che Marco Pantani – che anche in quel Tour mai si negò alle verifiche cui venne chiamato a presentarsi – non solo non è mai stato sorpreso positivo agli innumerevoli controlli antidoping cui si sottopose (il famoso stop del 1999 al Giro d’Italia, come tutti sanno, nulla aveva a che vedere col doping, tanto che gli costò 15 giorni di sospensione e nessuna squalifica) ma, quando morì, fu il medico legale, il professor Giuseppe Fortuni, a certificare, distruggendo per sempre ogni sospetto, l’assenza di «segni significativi di sostanze dopanti assunte in precedenza» [1].
Se dunque il presidente Uci intende proseguire sulla sua strada, lasciando, senza sollevare obiezione alcuna, che fra pochi giorni – per mano di una Commissione d’inchiesta del Senato francese – il nome del Pirata possa essere accostato a quello di altri 36 atleti i cui campioni di ieri, riesaminati con le nuove metodologia di oggi, risulterebbero positivi, dovrà prepararsi a spiegare molte cose. Non soltanto ai genitori di Marco Pantani, che nel diffidare pubblicamente McQuaid, hanno ricordato che in quello sportivo come «anche nel Diritto Penale, la morte interrompe qualsiasi procedura in essere o futura a carico dell’indagato incidendo anche sul reato che viene così dichiarato estinto come estinta è la pena».
No, i signori dell’Unione Ciclistica Internazionale dovranno anche spiegare a tutti noi: a) se prima di dichiarare la positività dei 37 atleti di cui conosceremo presto il nome sono stati effettuati – come si conviene – controlli dai medesimi esiti anche su un campione B; b) come mai si dispone di quei campioni dato che furono prelevati senza che nessuno, fino a prova contraria, ne avesse autorizzato la lunga conservazione; c) perché, anni dopo, si è deciso di violare l’anomimato della quarta copia dei moduli sottoscritti dagli atleti dopo i controlli (la prima rimaneva agli ispettori, la seconda all’atleta, la terza per un’eventuale controanalisi mentre la quarta, appunto, era solo contrassegnata da un codice e rimaneva a disposizione per sole finalità di ricerca).
Ma soprattutto – e veniamo a concludere – che razza di senso può avere un accertamento come quello disposto e i cui esiti verranno presto resi noti? Anche i bambini sanno che i regolamenti della World Anti-Doping Agency (Wada) stabiliscono che dopo otto anni un risultato è prescritto. Dunque? A cosa è dovuta, egregio McQuaid, tutta questa cura nel riesaminare i campioni dei decenni scorsi? Forse a pulire la coscienza di chi quei controlli, in quegli anni, li avrebbe potuti forse effettuare con più attenzione? Davvero non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che il doping, come Lei ci insegna, si combatte seguendo e tutelando gli atleti di oggi, non già investendo tempo – e danari – sulle tracce di quelli dell’altro ieri. Soprattutto se, come nel caso di Pantani, si tratta di gente morta. Ancora una parola: vergogna.
Note: [1] Fortuni G. cit in. Ghisalberti C. Pantani, triste conferma: “Morte per cocaina”. «Gazzetta dello Sport», 27 luglio 2004.