Giuliano: la danza del morto

Creato il 11 dicembre 2010 da Casarrubea

Nel corso di un “caminetto” con i rotariani, lo storico Giuseppe Casarrubea ha ricostruito la “messa in scena” del 4 luglio 1950 nel cortile dell’avv. Gregorio Di Maria a Castelvetrano

Giuliano: guardato a vista (foto Montalto, archivio L.Corseri)

La nascita, nel 1943, della Rete di invasione nazifascista dell’Italia, la presenza attiva, al suo interno, della banda di Salvatore Giuliano e la “fine” del “re di Montelepre”: è stato il percorso seguito dallo storico Giuseppe Casarrubea per argomentare la rilettura della storia e del banditismo in quegli anni, ma anche la “messa in scena”, come ebbe a definirla Gavin Maxwell, della morte dello stesso bandito.

Casarrubea, che ha parlato in un “caminetto” organizzato dal presidente del Rotary Club, Andrea Ferrarella, sul tema del banditismo nel secondo dopoguerra, è sicuramente tra i più attenti e scrupolosi studiosi dei fatti che caratterizzarono la fine della seconda guerra mondiale in Sicilia e dei primi anni di vita della Regione a statuto speciale. Vanta diverse pubblicazioni tra le quali citiamo “Lupara nera: La guerra segreta alla democrazia in Italia 1943-1947”, scritto insieme con Mario J. Cereghino ed edito da Bompiani. Recentemente Casarrubea e Cereghino hanno fatto parlare la stampa per la richiesta, accolta dal Procuratore aggiunto Antonio Ingroia, di esumazione del cadavere di Giuliano. Motivo: dare un nome certo, attraverso l’esame del Dna, ai resti fino ad oggi attribuiti a Salvatore Giuliano, ma sui quali pesano autorevoli “dubbi”.

Come e perché nasce l’iniziativa di Casarrubea e Cereghino? Quali sono le ragioni che li hanno portati ad ipotizzare che quello sepolto nel cimitero di Montelepre possa non essere Salvatore Giuliano?

Per dare una risposta a questi e ad altri interrogativi riportiamo di seguito la parte dell’intervento svolto da Casarrubea nella sede del Rotary Club di Alcamo e relativa agli eventi del 4 luglio 1950 nel cortile dell’avvocato Gregorio Di Maria a Castelvetrano.

Che succede la notte del 4 luglio 1950?

La versione ufficiale la conosciamo tutti: il cadavere di Giuliano è trovato nel cortile della casa di Gregorio Di Maria. Prima si sentono tre colpi di pistola, poi, dopo dieci-quindici minuti, una sventagliata di mitra. Successivamente spunta questo corpo nel cortile. Il capitano Antonio Perenze, che la sapeva più lunga del diavolo, redige un rapporto e scrive che c’è stato un conflitto, da lui guidato, tra  alcuni carabinieri e Giuliano. Questo è nei rapporti ufficiali.

Tommaso Besozzi, un giornalista dell’epoca, arriva sul posto, forse nella tarda mattinata di quel giorno. Parla con diverse persone. Sente i testimoni diretti dei fatti. Constata alcune cose e mette in evidenza le contraddizioni che quel corpo macchiato di sangue evidenzia. Ad esempio il sangue che sale verso l’alto attraverso la canottiera.  Scrive: ma qui le leggi di gravità non reggono perché il sangue anziché colare verso terra sale verso l’alto. E conclude in modo sibillino: “Di sicuro c’è solo che è morto”.

Ma in quella situazione in cui tutto era falso, tutto era privo di qualsiasi riferimento a quello che veramente era accaduto, bisognava avere il dovere, soprattutto da parte della Magistratura del tempo, di mettere in dubbio anche quella certezza perché le cose potevano non stare nei termini in cui la stampa dell’epoca, i rapporti ufficiali, ne parlavano.

Cosa abbiamo scoperto, poi, negli ultimi anni?

Procediamo con ordine.

Alcuni anni fa abbiamo ricevuto un plico da parte di un medico legale, il prof. Alberto Bellocco, il quale, sapendo delle nostre ricerche, ci aveva mandato una relazione tecnica che metteva in raffronto il corpo che giaceva nel cortile con quello che si trovava all’obitorio.  Bellocco ci comunicava che quelli erano due corpi diversi.

Da che cosa lo desumeva l’esperto? Dal fatto che il corpo che giaceva nel cortile aveva il lobo dell’orecchio attaccato alla pelle, non era pendente, mentre il lobo dell’orecchio del corpo all’obitorio lo era; nel cortile l’uomo presentava le basette lunghe, all’obitorio invece le basette erano molto corte, tagliate alte. Ed, ancora, notava altri particolari. Ad esempio all’obitorio risultava che il cadavere aveva ricevuto una grossa botta in testa, presentava alla tempia sinistra un superficiale colpo di pistola dall’alto verso il basso, con foro di entrata e di uscita a pochi centimetri l’uno dall’altro ed aveva la gamba destra completamente estroflessa, girata a 90 gradi. Tutti elementi questi che con il conflitto a fuoco confliggono perchè non è possibile che una persona in quelle condizioni, cioè con le gambe rotte, potesse avere sostenuto un conflitto a fuoco con i Carabinieri.

Quando abbiamo ricevuto – io e Mario Cereghino che lavoriamo da tempo alla stessa ricerca -  questo plico, per la cautela che dobbiamo avere nelle cose, non siamo saltati sulla sedia, siamo rimasti ben seduti ed abbiamo detto: questi elementi da soli non ci dicono molto.

Perché?

Quale ragione ci sarebbe di uccidere una persona e lasciarla all’obitorio e poi ucciderne un’altra e lasciarla a terra nel cortile dell’avv. Di Maria?

Non abbiamo trovato la ragione.

La spiegazione l’abbiamo trovata, invece, facendo esattamente come fa la polizia giudiziaria che ricerca, per rendersi conto del perché di un omicidio, il movente.

Da storici, allora, abbiamo cominciato ad interrogarci, a ricercare il movente.

Così per due anni ci siamo dedicati a rivedere tutti i tasselli che, con santa pazienza, avevamo messo uno dopo l’altro e ci siamo accorti, alla fine, che le prove del movente c’erano.

Dopo le stragi di Portella della Ginestra, gli assalti del 22 giugno contro varie Camere del Lavoro ed altri uccisioni e stragi (ricordo che Giuliano ha 411 fascicoli penali aperti per stragi ed omicidi vari) Giuliano apre una trattativa con lo Stato  a colpi di  mitra, tritolo e lupara. Il suo scopo è ottenere la libertà che gli era stata promessa per il suo attacco armato contro la sinistra.

Lo schema della trattativa vede, prima di tutto, una serie di morti ammazzati, tutti della Democrazia Cristiana, come Leonardo Renda e Vincenzo Campo di Alcamo. E’ la prima fase.

E’ una sorta di vendetta trasversale: colpire persone del partito al governo, quello che, ad alti livelli, aveva promesso la libertà ai componenti della banda in cambio di certe operazioni.

Quando Giuliano, però, va al redde rationem, chiede cioè il conto, i vertici della DC si bloccano, temporeggiano. Giuliano, allora, attacca: comincia a falcidiare gli iscritti, i candidati di questo partito.  Campo e Renda sono due persone per bene, hanno il solo torto di rappresentare un simbolo agli occhi di Giuliano.

Seconda fase. Quando dall’altra parte non si risponde a queste sollecitazioni, Giuliano alza il tiro e comincia ad eliminare elementi della stessa mafia che aveva mediato tra i gruppi di potere e la banda: Santo Fleres è il più grande mediatore dell’epoca nell’area di Partinico. Unisce le sue doti di boss a quelle di capo della DC. E’ uno dei primi a cadere. Viene ammazzato, a Partinico, in piena piazza, nel 1948.

Le mafie reagiscono, si consultano con quelli che potevano decidere ma non succede niente.

Terza fase. Questa volta Giuliano passa alle stragi e dà alla trattativa il carattere di una guerra guerreggiata.  Fino alla strage di Bellolampo, il 19 agosto 1949, quando sulle montagne che portano a Montelepre, dalla parte di Palermo, Giuliano mette una mina sotto un autocarro militare e lo fa saltare in aria. Sette carabinieri, tutti ventenni, morti e una ventina di feriti gravi.

Dopo Bellolampo le cose cominciano a cambiare. L’ispettorato generale di Ps guidato  dal 1945 al 1947 dal famigerato Ettore Messana, è abolito ed è sostituito con il Comando Forze repressione banditismo. Il Cfrb. Ma l’ultimo ispettore, Ciro Verdiani, non si toglie dalla circolazione. Rimane informalmente operativo fino al mese di giugno dell’anno successivo. Per quale motivo questo personaggio, piuttosto che fare le valigie, rimane in Sicilia, a stretto contatto con Giuliano dall’agosto 1949, quando doveva lasciare l’isola per fine mandato?

C’è una sola risposta: doveva espletare con Giuliano la prima parte della trattativa che si poneva in questi termini: Giuliano avrebbe scritto un memoriale con il quale si attribuiva la responsabilità delle stragi di Portella della Ginestra e del 22 giugno 1947. In cambio avrebbe avuto la libertà di espatriare.

Verdiani incontra spesso Giuliano. I due, l’antivigilia di Natale 1949, cenano assieme in una masseria di Salemi e l’ispettore, per dimostrare la sua disponibilità, si porta pure una bottiglia di Marsala ed un panettone. Avrebbe dovuto arrestarlo. Invece non lo arresta. Festeggia l’incontro e gli dice, più o meno: Mio caro Turiddu, dimmi cosa possiamo fare.

Così Giuliano scrive il primo memoriale, lo consegna a Ciro Verdiani e questi lo fa avere al procuratore capo della Repubblica Emanuele Pili

Pili lo legge, lo valuta sotto il profilo dei risultati che può determinare in sede processuale (siamo ad un mese dall’inizio del processo di Viterbo). Non gli pare che vada bene, perché da un punto di vista formale non si evince che le colpe siano unicamente del bandito Giuliano. Il fuorilegge deve scrivere  un secondo memoriale che Ciro Verdiani gli detta personalmente. Questa volta va bene: è scritto più corretto e la responsabilità del bandito di Montelepre è inequivocabile.

Giuliano non era così stupido da scrivere un memoriale, attribuirsi le colpe di una strage come quella di Portella della Ginestra, per poi essere ammazzato una settimana dopo: il secondo memoriale è del 28 giugno 1950, 6 giorni e mezzo prima della scomparsa.

Nessuno può pensare che un criminale incallito come lui poteva cadere nel trabocchetto: accusarsi e farsi pure ammazzare.

Evidentemente la trattativa aveva portato al via libera, alla “messa in scena”, come dice Gavin Maxwell, del cortile di Castelvetrano.

Maxwell è uno scrittore, che poi abbiamo scoperto essere anche un agente dei servizi segreti inglesi, che viene in Sicilia negli anni Cinquanta. Parlando della “morte” di Giuliano scrive: Tutto cambiò di scena. Tutto quello che noi avevamo visto dal punto di vista delle scene passate fu sostituito con nuovi scenari. Esattamente come in una recita teatrale: si tolsero i vecchi pannelli, il vecchio addobbo, il vecchio arredo del proscenio, e si impiantarono nuovi arredi, nuovi pannelli nuovi sfondi. Chi li guardava, ora,  era indotto a ritenere che quella fosse la nuova realtà.  Ma era un teatro dentro il  teatro.

A favore dell’ ipotesi, abbiamo testimonianze  autorevoli. Personalmente non sono né per una, né per un’altra, sono per mettere in evidenza le cose come stanno, poi saranno gli organi competenti, l’opinione pubblica, quelli che hanno un minimo di attaccamento alla memoria e alla propria storia, e soprattutto alla verità delle cose, a valutare.

Uno di questi personaggi autorevoli è padre Pio. Che c’entra padre Pio?

In questa storia c’entra!

Quando nasce l’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), Giuliano, nella sua megalomania, si sente investito del potere di dirigere un esercito, anche se ha solo quattro gatti al seguito. Vuole che, come tutti gli altri eserciti, anche il suo abbia un cappellano. Così avvicina padre Pio per fargli la proposta.

Per Giuliano è un passo falso perché il frate, ignaro di tutto, quando è a conoscenza dell’esistenza in Sicilia di questo personaggio caratteristico, non se lo scorda più. E  tutte le volte che, dopo il 1950, arrivano da lui dei siciliani chiede loro: che si dice di Giuliano?

La risposta è sempre la stessa: che è stato ammazzato. E lui che sapeva le cose perchè era anche confessore rispondeva con ironia: – che cosa andate credendo, Giuliano è vivo ed è scappato in America.

Ci sono giornalisti ancora in vita, che credo siano stati sentiti dalla magistratura, che lo hanno messo per iscritto.

Poi, come abbiamo detto, c’è Maxwell, ed ora ci sono pure le testimonianze dell’avv. Di Maria, la persona che aveva in casa, diciamo, l’ospite. De Maria il giorno prima di morire, che è stato il giorno dopo che noi abbiamo presentato la denuncia (5 maggio 2010), ha detto a due infermieri dell’ospedale civico di Castelvetrano dove era ricoverato, in modo chiaro ed inequivocabile che quello ammazzato era un sosia. Anche questi due infermieri sono stati ascoltati dai magistrati di Palermo.

Giuliano aveva dei sosia. Ci sono le dichiarazioni di Pasquale ‘Pino’ Sciortino, il cognato di Giuliano per averne sposato la sorella Marianna. Sciortino nel 1987 scrive che Giuliano aveva diversi sosia e che uno di loro era di Altofonte. Ma le sorprese non finiscono mai. Una cosa strana avviene dopo la esumazione del cadavere. Tenete in mente l’immagine del cortile di Castelvetrano: Giuliano è in canottiera con un paio di pantaloni; calza dei sandali. L’abbigliamento è estivo, c’è caldo. Quando si apre la tomba, cosa ci dicono alcuni reporter che hanno fatto le riprese? Ci dicono immediatamente, perché la cosa era palpabile, a vista, che tra le gambe Giuliano aveva un paio di scarponcini, che era nudo completamente, quindi non aveva pantaloni, e che dietro la nuca aveva una giacca di velluto pesante.

Cioè, è come se questo morto fosse entrato all’obitorio in estate e fosse uscito in inverno. Poi, non è possibile che uno entra vestito all’obitorio ed esce nudo.

Da noi, poi, il culto dei morti è sacro; la veglia è sacra e nessuna famiglia la omette. E’ normale pensare che fu esposto  un corpo completamente nudo?

Questo può significare che quel morto è stato messo lì molto velocemente. Ma in che epoca?

E l’ipotesi su cui indagano i magistrati: sostituzione di cadavere.


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