«assistiamo al paradosso di una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra, assediata dall’impero dei media, dalla vacuità della comunicazione, dalla degradazione del linguaggio e della vita civile… Insieme ad una radicale ecologia dell’ambiente fisico abbiamo bisogno di un’ecologia della comunicazione, che agisca come ecologia della mente, che liberi le nostre menti dagli scarti che le tengono in ogni momento sotto assedio, con una catena di manipolazioni a cui ben pochi arrivano a resistere”.
di Michele Lupo
Cominciamo dalla fine. Ferroni invoca un principio di responsabilità dello scrittore rispetto al destino del mondo. Detta così sembra assai pomposa. E il rischio della retorica in effetti serpeggia un po’ per tutto il libretto del critico, che svolge considerazioni spesso condivisibili ma talvolta banali, fra il fastidio per la vezzosa scrittura dei soliti Giordano, Mazzantini e il noto poseur torinese (“de cuyo nombre no quiero acordarme”, scrive) e quello per la vacuità rumorosa di festival, fiere e defilè mondano-culturali.
Al netto delle ovvie lamentele per lo scempio di una vita ridotta a reality (al critico però bisogna riconoscere la schiena diritta di chi preferisce passare per barbogio e passatista piuttosto che abbracciare il neoestetismo degli scrittori che si vantano di vedere le lavandaie dell’”Isola”: qualche tempo fa lo ha fatto con tratto pensoso-paraculo Antonio Pascale nel salotto dell’ironista per principio Serena Dandini), sbucciando via insomma il di più necessario a impaginare il centinaio di cartelle, resta l’attacco alla “degradazione del linguaggio e della vita civile” cui molti scrittori italiani partecipano con scioltezza di manovra e gusto vanesio per la passerella – magari per segnalare, essi per primi, la vana irrilevanza della messinscena.
Nella stessa cultura che si vuole alta l’andazzo in corso è accettato come inevitabile; nessuno più mette in discussione il fatto che un libro esiste solo se ha successo; nessuno crede di doversi giustificare delle contraddizioni che questo implica. Farei un passo ulteriore rispetto al libro di Ferroni chiamando alla discussione gli scrittori accondiscendenti che ritengono normale acquattarsi nel così fan tutti di un’operazione editoriale come quella responsabile de La solitudine dei numeri primi.
In molti mostrano di apprezzare l’editor Antonio Franchini come scrittore in proprio, ma si guardano bene dal criticarne la regia che porta il romanzetto di Paolo Giordano non allo Strega, che va da sé (è “solo” un premio…) ma a una diffusa indulgenza critica. Se Ferroni scrive che il libro si risolve in “una scrittura plastificata” in cui “la scienza non c’entra nulla, non diventa in nessun modo principio di organizzazione del racconto, ma solo generica metafora della solitudine dei due protagonisti (…) in un intreccio di formule e presupposti mediatici, una superficialissima disponibilità sentimentale a un’immagine di dolore incantato”, ottimo di questi tempi per connotare il clima di “un’educata borghesia progressista”, ecco, mentre un critico scrive questo – e io sottoscrivo – ho l’impressione che molti scrittori siano affascinati dall’operazione, che la sognino per se stessi.
Perciò, l’equivalenza di cospicua parte del mondo letterario italiano con la beceraggine della comunicazione (sulla quale da tempo va scrivendo pagine più impegnative e stimolanti Mario Perniola) sta proprio nel rimosso che la costituisce: il motore, mezzo e fine insieme, è lo stesso: il marketing, l’efficacia economica – divinità suasorie che non risparmiano nessuno, tanto da consentire la riesumazione di decomposti cavalli di troia utili a replicare l’aura di duri e puri stando ben dentro al mercato dei libri che si ve(n)dono.
Fino a qualche giorno fa non risulta che autori Mondadori o Einaudi si stessero facendo problemi sulle scelte che li definiscono; finalmente – ora che va in piazza anche Sabrina Ferilli – è arrivata una lettera di protesta rispetto all’infame ddl sulle intercettazioni, acme di un’affezione non so se più acuta o cronica del corpo sociale di questo tristissimo Paese. Di solito, scrittori che si straccino le vesti per la fine che sta facendo non ne vedi.
I più fra gli scrittori italiani brillano per le loro “scritture a perdere” ma anche per l’assenza di partecipazione alle cose serie – vedi il disinteresse per la scuola. Credono di cambiare il mondo con un noir, o con una battuta molto ironica, mentre si aggirano sornioni – senza l’aria sperduta di Ferroni, che non vede l’ora di scappare – fra Saloni e Fiere del Libro che al risveglio culturale di cui abbiamo bisogno come e più del pane partecipano zero, fatturato a parte – Mondadori e Einaudi, s’intende.