Milanese, classe 1976, Catozzella, editor per Feltrinelli e autore di reportage e libri-inchiesta, è giunto alla ribalta delle cronache con il romanzo Non dirmi che hai paura (Feltrinelli), candidato al Premio Strega e in fase di pubblicazione in ben tredici paesi.
Dal libro verrà tratto un film con produzione italo-americana (la Leone Film Group, la casa di produzione degli eredi di Sergio Leone ha comprato i diritti) con l’obiettivo di distribuirlo in tutto il mondo.
Ho incontrato Catozzella a Torino poco prima della presentazione del suo romanzo al Salone del Libro di Torino, una lunga chiacchierata che mi ha confermato quello che le pagine del romanzo mi avevano trasmesso del loro autore: un cuore sensibile, una persona dolce ma acuta, nei modi e negli sguardi.
Ecco che cosa ci siamo detti.
Io stavo facendo delle ricerche per un altro libro che doveva trattare dei i campi taliban e per questo mi trovavo in Kenya. Una mattina, mentre facevo colazione, ho sentito parlare della vita e della tragica morte di Samia e in me sono accadute due cose: da un lato sono stato investito dalla potenza di questa storia e dall’altro mi sono sentito responsabile, in quanto italiano, per la morte di questo talento. Mi sono reso conto che fino a quel momento non avevo mosso un dito per quella gente e dato che il mio modo di “stare al mondo” mi impone di essere solidale, ho deciso che avrei raccontato la storia di Samia e così ho fatto.
Per arrivare a scrivere avrai dovuto fare molte ricerche, cosa non facile visto che Samia era somala. Come ti sei mosso?
Avevo l’ovvia necessità di incontrare chi la conosceva bene, di farmi raccontare di lei dai suoi familiari. Ci sono state diverse persone fondamentali per la mia ricerca: Igiaba Scego, scrittrice italo-somala che mi ha aiutato nelle ricerche preliminari e Teresa Krug, giornalista di Al Jazeera che aveva scritto diversi articoli su Samia e aveva finito per diventare amica sua e della famiglia. È stata lei che mi ha passato il contatto di Hodan, la sorella di Samia che vive ad Helsinki.
Cosa è successo quando hai contattato la sorella?
Ci sono voluti sei o sette mesi perché mi rispondesse, non ne voleva sapere di me e delle mie richieste di incontrarci. È stato necessario l’aiuto di una mediatrice culturale, Zara Omar, per avvicinarmi. Senza di lei questo libro non esisterebbe. È stata Zara che scrivendo a Hodan in somalo ha ottenuto che potessimo andare a Helsinki per una settimana.
Come è stato l’incontro?
Hodan ci ha accolto in modo gentile nella sua piccola casa prefabbricata, spoglia ma calda, che il governo finlandese assegna ai rifugiati come lei. Zara cercava di sciogliere il ghiaccio e, dopo i convenevoli, ci siamo spostati in una stanza dove c’erano solo un tappeto e un divano, io ho estratto il registratore ma non ho nemmeno fatto in tempo a fare la prima domanda: appena ho fatto il nome di Samia, Hodan ha reagito con un fiume di lacrime. Per quasi un’ora abbiamo tentato di parlare, ma era inutile, Hodan non faceva che piangere. A quel punto ho detto a Zara di dire a Hodan che mi ero reso conto di avere sbagliato tutto, che ce ne saremmo andati l’indomani e che non se ne sarebbe fatto nulla, probabilmente non era stata una buona idea quella di voler scrivere questa storia così dolorosa. Finalmente ci siamo rilassati tutti e abbiamo riso. Poco prima di andarmene ho deciso di dire a Hodan il vero motivo per il quale avevo pensato di scrivere la storia di sua sorella, ovvero perché mi sentivo responsabile per la morte di Samia.
Che cosa è accaduto a quel punto?
Non dimenticherò mai gli occhi di Hodan mentre le spiegavo come mi sentivo. Da lì è cambiato tutto. In quel momento Hodan ha deciso di affidarmi la storia, ha deciso di prendersi il rischio che comportava il racconto di questa vita, il rischio provare tanta sofferenza.
A quel punto la settimana è trascorsa in modo intensissimo, tra momenti di lacrime collettive, canti e grandi risate; è stata un’esperienza indimenticabile.
Quanto ci hai messo in tutto per terminare il libro?
Un anno e mezzo, più o meno.
Ti ha sorpreso la candidatura di Non dirmi che hai paura al Premio Strega?
Sì, abbastanza, perché non mi sembra che negli ultimi anni un libro di letteratura civile sia stato candidato. Mi piace il fatto che la storia silenziosa di una migrante, perché in fondo questo era Samia, una migrante, sia arrivata alle fasi finali del premio.
Credi di avere possibilità di vincere?
Non so, sinceramente non credo, ma non è una delle cose a cui tengo di più. Certo, sono felice di essere candidato e sarebbe bello vincere, ma quello che più mi interessa sono i lettori, il fatto che il romanzo uscirà in tredici paesi del mondo. In Francia, per esempio, è appena uscito.
Hai mantenuto i rapporti con Hodan?
Sì, ci sentiamo spesso. Proprio l’altro giorno l’ho informata che il Comune di Milano ha intitolato una pista d’atletica a sua sorella Samia Yusuf Omar. All’evento di inaugurazione c’erano 650 ragazzi che gareggiavano in varie discipline, una festa bellissima.
Dopo aver scritto questo libro come vedi il problema dell’immigrazione?
Immergersi così tanto nella vita anche di uno solo di questi migranti ti cambia per sempre. Prima mi facevo condizionare dalle frettolose cronache dei Tg, non avevo sviluppato alcuna sensibilità rispetto al tema e mi facevo trasportare dal pregiudizio; ero portato a considerare questa gente non dico come numeri, ma quasi. I Tg, in fondo, ce li raccontano così. Adesso, invece, ho ben chiaro che ognuna di queste persone è portatrice di una storia cento volte più interessante della mia. Per raccontare il viaggio di Samia ho incontrato decine di ragazze, anche di sedici anni che hanno fatto il viaggio e solo guardandole negli occhi si capisce che hanno già vissuto l’equivalente di quattro vite mie.
Raccontaci qualcosa su Giuseppe Catozzella scrittore. Tu lavori come editor in Feltrinelli. Com’è per uno che fa il tuo mestiere farsi fare l’editing da un collega? O te lo fai da solo?
No, da solo no, per fortuna. Più occhi, più cervelli e soprattutto più cuori mettono mano al testo, meglio è per la salute del libro. Non sono certo stato lasciato da solo. Non sono di quegli autori che pensa che il suo lavoro e le sue parole siano intoccabili.
Quando hai scoperto la tua vocazione di scrittore?
A dodici anni ho avuto una specie di folgorazione. La professoressa ci aveva dato da leggere Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse e mentre leggevo ho saputo che quello sarebbe stato il mio mestiere, che avrei vissuto la mia vita tra le parole.
Qual è il ruolo dello scrittore nella società oggi?
Dipende. Alcuni scrittori non si assumono nessun ruolo. Io ho sempre pensato che il mio ruolo fosse quello di raccontare storie cosiddette civili, cioè di cercare con la letteratura di cambiare il mondo, che è un’aspirazione folle e ambiziosissima, lo so, ma per me scrivere è questo o niente. E a volte ci sono piccole conquiste che danno soddisfazione. Quando l’otto maggio il Comune di Milano ha organizzato la festa di inaugurazione della pista intitolata a Samia, come ti dicevo prima, ho pensato: «Be’ allora capita davvero che i libri trasformino la realtà!».
Qual è la cosa più bella che ti hanno detto su Non dirmi che hai paura?
Stavo facendo un tour in Puglia e durante una presentazione una signora ha alzato la mano per raccontarmi un episodio che mi ha davvero colpito. Mi ha spiegato che una sua amica malata di tumore era caduta in una forte depressione e si rifiutava di uscire, vedere gente, reagire. Lei le aveva regalato il mio romanzo, ma inizialmente l’amica non aveva voluto nemmeno aprirlo. Poi, una mattina, la malata l’ha chiamata dicendo che aveva letto il libro per tutta la notte e che Samia le aveva dato la forza per ricominciare a combattere. Un complimento più bello è difficile da trovare.
Se ti è piaciuto questo post, non perderti i prossimi. Clicca qui e iscriviti subito per ricevere tutti gli aggiornamenti