Giuseppe Rossi, capocannoniere della storia del Villarreal in massima serie, si è raccontato in un libro, un’autobiografia curata da Alessandra Bocci de “La Gazzetta dello Sport” e intitolata “My Way – A modo mio”. Uscito lo scorso 2 dicembre in tutte le librerie d’Italia, a nemmeno 27 anni, il più grande talento italiano della sua generazione si rivela agli occhi dei suoi tifosi in tutta la sua semplicità, ma quel che ne esce fuori è più la biografia del Giuseppe Rossi uomo, che di quello calciatore.
Un viaggio a cavallo tra i due mondi, il suo New Jersey e la sua Italia, tra due anime che si inseguono e si completano, la mentalità americana e le radici nel Belpaese. Un viaggio che inizia da Paterson, dove suo papà Fernando, tifoso milanista, frequentava il Roma Club, un luogo di ritrovo dove vecchi e ragazzi si riunivano per giocare a carte, ascoltare le radiocronache e parlare di calcio, anzi di soccer. E che tocca Clifton, dov’è cresciuto insieme alla mamma Cleonilde e alla sorella Tina – il cui giorno di nascita, il 17, si è inciso sulla maglia d’esordio con la nazionale italiana –, passando per l’Inghilterra, la Spagna e infine Firenze.
Una storia che passa inesorabilmente per i terribili infortuni che ne hanno contraddistinto la carriera, per Richard Steadman, il chirurgo a lungo criticato da Danilo Gallinari, per la fisioterapia e il rapporto quotidiano con le macchine, il Pilates, lo yoga e l’AtlerG, per la musica rap di Jay-Z e i casuali incontri con altre stelle dello sport come Kobe Bryant, conosciuto alla festa di compleanno di Steve Nash. Come si può ben capire è un libro che più che di sport racconta la vita e i pensieri di un ragazzo in continua lotta tra le sue ambizioni e la fragilità del suo corpo, che trova il tempo per parlare del suo rapporto con i giornalisti e, tramite i social network, con i tifosi.
Tra un capitolo e l’altro c’è anche il tempo di parlare di calcio, la sua passione più sfrenata, della sua stagione d’oro quando un bimbo di otto-nove anni segnò 108 reti in una stagione tra gli stati di New York, New Jersey, Connecticut e Pennsylvania. La sua adolescenza milanista vissuta tra l’idolatria di campioni come Gullit, van Basten, Roberto Baggio, Weah e Shevchenko, l’esordio in nazionale under 21 grazie a Casiraghi e Zola, il cartellino rosso di Lannoy a Pechino 2008, la chiamata di Bruce Arena nella selezione a stelle e strisce per uno stage in Scozia, i passaggi in macchina a van Nistelrooy i giorni degli allenamenti, Fiorentina-Juventus 4-2 in rimonta con doppietta di Pepito che si trasforma nelle celebrazioni per una Coppa dei Campioni.
Ma in tutto questo c’è anche un po’ di Spagna, dove il “Bambino” – come veniva chiamato a Vila-real – ha trascorso ben cinque anni e mezzo della sua vita. Racconta che dopo il semestre di Parma furono molte squadre a volerlo ma scelse il Villarreal perché era il luogo più adatto per poter crescere come calciatore e soprattutto per Manuel Pellegrini, per il suo modo di intendere il calcio, propositivo e offensivo, garanzia di successo. Senza badare ai soldi, fece una scelta di vita, e d’altronde per un tipo tranquillo come lui era l’ambiente perfetto. Prese casa a Benicasim, un comune di 12mila anime a 20 km da Vila-real, solitamente tana dei calciatori sudamericani per via delle sue spiagge, dove Giuseppe amava fare passeggiate rilassanti.
Qui si vive da Dio, spiega, e i tifosi sono appassionati ma non ti soffocano, ti invitano a prendere un caffè perché sei italiano, ma a lui il caffè non è mai piaciuto. Italiano sì, ma la testa resta americana. La sua carriera decolla, la sua famiglia viene a trovarlo per le grandi occasioni, il 27 gennaio 2008 segna al Santiago Bernabéu contro le merengues, mamma Nilde esulta come un’indemoniata in mezzo agli aficionados blancos. C’è uno spazio speciale anche per il cucchiaio su rigore a Roberto del Saragozza, calciato “alla Panenka” – come amano dire da queste parti –, solo perché la prima trasformazione fu fatta ripetere dall’arbitro perché accusato di aver rallentato la corsa dal dischetto.
La Spagna resta una tappa fondamentale, è un periodo meraviglioso con amici veri, lui che di amici ne ha sempre avuti pochi, finché arriva il giorno del crac. Il 26 ottobre 2011 un banale contrasto con Xabi Alonso sposta qualcosa nel suo ginocchio che non dovrebbe spostarsi, lui vorrebbe continuare a restare in campo ma Garrido preferisce non rischiare, lo toglie e il bambino esce sulle sue gambe. Nel tunnel per gli spogliatoi incrocia Florentino Pérez, presidente del Real Madrid, che gli chiede se sia tutto okay, lui risponde che avrebbe voluto proseguire il match, ma il giorno successivo emerge la triste verità. Una risonanza magnetica rileverà la rottura del crociato destro, Enrique Gastaldi lo opererà il giorno stesso e la speranza di giocare gli Europei 2012 è ancora viva, ma inizierà un travaglio infinito che terminerà coll’inesorabile ritorno alle origini, nella sua Italia.
Giuseppe Rossi, il calciatore dei due mondi
Giuseppe Rossi, capocannoniere della storia del Villarreal in massima serie, si è raccontato in un libro, un’autobiografia curata da Alessandra Bocci de “La Gazzetta dello Sport” e intitolata “My Way – A modo mio”. Uscito lo scorso 2 dicembre in tutte le librerie d’Italia, a nemmeno 27 anni, il più grande talento italiano della sua generazione si rivela agli occhi dei suoi tifosi in tutta la sua semplicità, ma quel che ne esce fuori è più la biografia del Giuseppe Rossi uomo, che di quello calciatore.
Un viaggio a cavallo tra i due mondi, il suo New Jersey e la sua Italia, tra due anime che si inseguono e si completano, la mentalità americana e le radici nel Belpaese. Un viaggio che inizia da Paterson, dove suo papà Fernando, tifoso milanista, frequentava il Roma Club, un luogo di ritrovo dove vecchi e ragazzi si riunivano per giocare a carte, ascoltare le radiocronache e parlare di calcio, anzi di soccer. E che tocca Clifton, dov’è cresciuto insieme alla mamma Cleonilde e alla sorella Tina – il cui giorno di nascita, il 17, si è inciso sulla maglia d’esordio con la nazionale italiana –, passando per l’Inghilterra, la Spagna e infine Firenze.
Una storia che passa inesorabilmente per i terribili infortuni che ne hanno contraddistinto la carriera, per Richard Steadman, il chirurgo a lungo criticato da Danilo Gallinari, per la fisioterapia e il rapporto quotidiano con le macchine, il Pilates, lo yoga e l’AtlerG, per la musica rap di Jay-Z e i casuali incontri con altre stelle dello sport come Kobe Bryant, conosciuto alla festa di compleanno di Steve Nash. Come si può ben capire è un libro che più che di sport racconta la vita e i pensieri di un ragazzo in continua lotta tra le sue ambizioni e la fragilità del suo corpo, che trova il tempo per parlare del suo rapporto con i giornalisti e, tramite i social network, con i tifosi.
Tra un capitolo e l’altro c’è anche il tempo di parlare di calcio, la sua passione più sfrenata, della sua stagione d’oro quando un bimbo di otto-nove anni segnò 108 reti in una stagione tra gli stati di New York, New Jersey, Connecticut e Pennsylvania. La sua adolescenza milanista vissuta tra l’idolatria di campioni come Gullit, van Basten, Roberto Baggio, Weah e Shevchenko, l’esordio in nazionale under 21 grazie a Casiraghi e Zola, il cartellino rosso di Lannoy a Pechino 2008, la chiamata di Bruce Arena nella selezione a stelle e strisce per uno stage in Scozia, i passaggi in macchina a van Nistelrooy i giorni degli allenamenti, Fiorentina-Juventus 4-2 in rimonta con doppietta di Pepito che si trasforma nelle celebrazioni per una Coppa dei Campioni.
Ma in tutto questo c’è anche un po’ di Spagna, dove il “Bambino” – come veniva chiamato a Vila-real – ha trascorso ben cinque anni e mezzo della sua vita. Racconta che dopo il semestre di Parma furono molte squadre a volerlo ma scelse il Villarreal perché era il luogo più adatto per poter crescere come calciatore e soprattutto per Manuel Pellegrini, per il suo modo di intendere il calcio, propositivo e offensivo, garanzia di successo. Senza badare ai soldi, fece una scelta di vita, e d’altronde per un tipo tranquillo come lui era l’ambiente perfetto. Prese casa a Benicasim, un comune di 12mila anime a 20 km da Vila-real, solitamente tana dei calciatori sudamericani per via delle sue spiagge, dove Giuseppe amava fare passeggiate rilassanti.
Qui si vive da Dio, spiega, e i tifosi sono appassionati ma non ti soffocano, ti invitano a prendere un caffè perché sei italiano, ma a lui il caffè non è mai piaciuto. Italiano sì, ma la testa resta americana. La sua carriera decolla, la sua famiglia viene a trovarlo per le grandi occasioni, il 27 gennaio 2008 segna al Santiago Bernabéu contro le merengues, mamma Nilde esulta come un’indemoniata in mezzo agli aficionados blancos. C’è uno spazio speciale anche per il cucchiaio su rigore a Roberto del Saragozza, calciato “alla Panenka” – come amano dire da queste parti –, solo perché la prima trasformazione fu fatta ripetere dall’arbitro perché accusato di aver rallentato la corsa dal dischetto.
La Spagna resta una tappa fondamentale, è un periodo meraviglioso con amici veri, lui che di amici ne ha sempre avuti pochi, finché arriva il giorno del crac. Il 26 ottobre 2011 un banale contrasto con Xabi Alonso sposta qualcosa nel suo ginocchio che non dovrebbe spostarsi, lui vorrebbe continuare a restare in campo ma Garrido preferisce non rischiare, lo toglie e il bambino esce sulle sue gambe. Nel tunnel per gli spogliatoi incrocia Florentino Pérez, presidente del Real Madrid, che gli chiede se sia tutto okay, lui risponde che avrebbe voluto proseguire il match, ma il giorno successivo emerge la triste verità. Una risonanza magnetica rileverà la rottura del crociato destro, Enrique Gastaldi lo opererà il giorno stesso e la speranza di giocare gli Europei 2012 è ancora viva, ma inizierà un travaglio infinito che terminerà coll’inesorabile ritorno alle origini, nella sua Italia.