Ci sono sere in cui, preso dall’insopprimibile volontà di fare ordine o più frequentemente dalla necessità di fare spazio in ogni modo alle pile di libri che stanno prendendo possesso dell’appartamento, mi decido a provare a selezionare strati di carta abbandonati da lustri sugli scaffali. Ne riemergo generalmente perplesso per la scelte archivistiche di anni addietro: cosa mai poteva avermi spinto a conservare religiosamente un inserto a colori sugli oleandri? Perchè avevo ritagliato questo articolo sulle motoslitte? Cosa mi aveva colpito in questo articolo sui BOT nel Sole24Ore di quattro anni fa? E soprattutto, perchè ho tenuto per sei anni una copia di Ulisse, rivista – invero bruttina – messa a disposizione dei passeggeri di Alitalia?
La sfoglio e all’improvviso ho una illuminazione, sollecitata dall’aspetto un po’ stropicciato della copia: è quella che ho stritolato nell’avvicinamento a Palermo, e se siete mai atterrati a Punta Raisi sapete di cosa sto parlando. La hostess annuncia che ci si sta preparando all’atterraggio, tu guardi dal finestrino e vedi un mare splendido avvicinarsi poco a poco. L’acqua cristallina comincia a sembrati un po’ troppo vicina (e accartocci la rivista), poi cominci a contare piccole onde vi-si-bi-lis-si-me (e la arrotoli stringendo i denti), infine inizi a visualizzare dei graziosi pesciolini sotto la superficie e hai la netta impressione che alzino una pinna per salutarti (e quella carta stampata è ormai ridotta alle dimensioni di un sigarillo).
Riposta la copia nella sua reliquia mi son domandato se vi fossero aeroporti più terrorizzanti su cui indirizzare il proprio carrello. Ebbene si, ci sono.
Conservo un ricordo straordinario del Portogallo, forse l’unico paese al mondo in cui mi sarei fermato a vivere pur essendo tendenzialmente ammantato di tricolore. Probabilmente dipende dal non essere mai partito od atterrato a Madeira, dove la pista è stata allungata facendola poggiare su un paio di centinaia di piloni. Non ho dubbio alcuno sulla tenuta della struttura – che esiste da anni e ha certamente superato ogni test di certificazione – ma continuerei serenamente ad indicare Porto come punto di arrivo di una trasferta lusitana.
Ecco a voi l’aeroporto di Saba. Il nome di questo spuntone di roccia in piene Antille Olandesi non può che provocarmi istintiva simpatia letteraria ma resta il fatto che sarei costretto ad un supplemento di biancheria intima fin dal primo rullaggio. Ecco un luogo su cui ho appena tracciato una croce rossa sul mappamondo: Saba, ahimè, non mi avrai mai!
Mi rendo conto che la preoccupazione principale non dovrebbe tanto essere mia quanto di chi è al volante: i passaggi a livello funzionano senza alcun dubbio, per carità, ma la sola ipotesi di potersi trovare ad attraversare una pista mentre un 767 si avvicina a tutta velocità dovrebbe agghiacciare tutti coloro si trovino a percorrere in automobile Churchill Avenue a Gibilterra. Ed uscire da lamiere accartocciate urlando ad un pilota che “avevo io la precedenza” cercando di convincerlo a compilare una constatazione amichevole non deve essere un pensiero del tutto rilassante…
“Allora, ragazzi, dove lo piazziamo questo aeroporto?”
“Boh, dai, è uguale”
“Come sarebbe a dire è uguale?”
“Ma si, dai, tanto già abbiamo la sfortuna di vivere in un posto dal nome impronunciabile. Te lo vedi uno che si avvicina allo sportello e chiede un biglietto per Tegucigalpa?”
“In effetti…”
“Ecco, quindi piazzalo un po’ dove vuoi. Guarda, mettilo qui”
“Ma come qui? E’ in mezzo a una vallata circondata dai monti, i piloti dovranno fare una manovra ai limiti del cedimento strutturale!”
“Devo ricordarti il nome di ‘sto posto?”
“Hai ragione, costruiamo.”
Terminato il tour, sono confortato: con ogni probabilità, ci sono altre case ed altri scaffali che conservano riviste appallottolate o fatte a pezzi in preda al nervosismo. Adesso, mi sento meno solo