Gli affamatori preoccupati dalla carestia

Creato il 14 agosto 2012 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Guerre, veleni, diluvi, terremoti, stragi di innocenti, siccità, incendi. In attesa delle locuste il G20 prende in esame la piaga della fame, che in questi anni si presenta in nuove geografie, come a dire che anche i ricchi – colpevoli – piangono e diventano sempre meno ricchi, salvo alcuni che invece lo sono e saranno sempre di più.
In attesa di un incontro, il 27 agosto i Grandi si telefoneranno. Perché gli Stati Uniti sono colpiti dalla peggiore siccità nell’ultimo mezzo secolo. Il Brasile è invece travolto da piogge torrenziali che hanno distrutto il raccolto della canna da zucchero. In India i monsoni registrano un inquietante ritardo e in Australia si estendono i fenomeni di desertificazione. A luglio, secondo le rilevazioni condotte dalla Fao, tutti questi fattori sommati hanno provocato un aumento medio globale dei prezzi del cibo del 6%, con il rischio potenziale “che la situazione si sviluppi come nel 2007 e nel 2008, quando una combinazione di alti costi del petrolio, aumento nell’uso dei biocarburanti, cattivo tempo e politiche restrittive sulle esportazioni, aveva generato un tale balzo nei prezzi del cibo da provocare proteste violente in strada, dall’Egitto ad Haiti”.

Si telefonano, prima di convocare il Rapid Response Forum, istituito per «promuovere discussioni anticipate riguardo condizioni anormali sul mercato internazionale», sono preoccupati dai moti per il pane degli straccioni, un movimento trasversale ormai che interessa non solo i pigs, ma il terzo mondo interno che alberga ormai in territori insospettabili, sorprendenti, opulenti. E che si manifesta con sterminati squallidi e rabbiosi slum ai margini dei quartieri residenziali, con bidonville a fianco delle Case Bianche, con accampamenti che si trasformano in tremendi fucine di malessere e violenza. Infatti si telefoneranno non per contrastare le carestie ma per concordare la repressione, rapida come si conviene al Response Forum.
Sulla fame imminente i media si soffermano poco e con molta cautela, come sulle sue cause, il degrado dell’ambiente che incrementa le disuguaglianze, il sacco del territorio, l’impoverimento dei suoli, la dissipazione delle risorse. Se la stampa avesse dedicato alla minaccia di questa catena di apocalissi deriali anche solo la metà dell’attenzione dedicata allo spread, il 99 per cento della popolazione mondiale avrebbe dovuto scendere in piazza oltre che assaltare i forni per persuadere i rispettivi governanti a prendere provvedimenti immediati.

Ma forse, adesso, ne parleranno invece, si, metteranno le carte in tavola per costringerci e sottometterci al ricatto estremo, alla scelta tra fame e cancro, tra lavoro e inquinamento, tra profitto e ambiente, tra ragione e hybris, buonsenso e dissipazione. Ed anche tra competenze istituzionali e giustizia, tra profitto e salute.
Tutto il pianeta viene sconvolto sempre più spesso dal dissesto di interi territori, con morti e danni incalcolabili. Cielo (clima) e terra (suolo) si uniscono nel provocare vendicativi disastri che non hanno altra origine che l’incuria e il profitto, e che mille “piccole opere” di salvaguardia del territorio (invece di poche “Grandi opere” che concorrono al suo dissesto) potrebbero invece prevenire.
Qui da noi poi la cultura ambientale, che è ormai “scienza della sopravvivenza”, è stata estromessa anche dall’orizzonte ideale e dal repertorio propagandistico del governo e dei suoi sostenitori. La cura viene riservata ad altri beni, profitti, azionariati, patrimoni, interessi privati, perché la mano invisibile di Adam Smith ha rivelato la illusorietà, la Provvidenza di è dimostrata inadeguata e la ricerca egoistica dell’accumulazione e della ricchezza non ricade benevolmente sull’intera società finendo per trasformare “vizi privati” in “pubbliche virtù”.

E dire che la cultura ambientale potrebbe e dovrebbe essere una bussola per la riconversione del sistema economico: oltre a contribuire a salvarci dai disastri, rappresenterebbe un’opportunità unica per difendere e promuovere l’occupazione – per di più altamente qualificata – e per salvare impianti, competenze e capacità produttive di imprese che ogni giorno vengono chiuse, vuoi per delocalizzazioni, vuoi per crisi di mercato, vuoi per speculazioni selvagge.
Ma per questo bisognerebbe mettere al centro del programma di governo una politica industriale, una vera politica agroalimentare, una politica di salvaguardia dell’ambiente, un piano per l’occupazione, azioni che i sacerdoti della teocrazia del mercato considerano una pratica blasfema intenti come sono a una crescita che persevera nell’accumulazione delle catastrofi fino a provocare quella ”vendetta della natura” che dal secolo XIX filosofi e scienziati accorti avevano previsto. Perché è da sempre evidente che la fragilità del pianeta è in stretta relazione con l’atteggiamento predatorio nei confronti della natura, speculare a quello che l’attuale sistema tiene nei rapporti con gli esseri umani, così che allo stesso modo è minacciata la sopravvivenza dell’intero pianeta e dell’umanità come quella di una vita non ridotta a merce, ma rispettosa della dignità di ciascuno. E perché ci hanno spinti a censurare preferenze, aspettative, desideri e bisogni considerati immeritati fino a diventare illegittimi in caso di necessità, così come di reprimono diritti e necessità, degradati a concessioni da elargire ai più meritevoli, ai più ubbidienti, ai più sobri.
Ci sta venendo tolta qualsiasi facoltà di scelta, quella di Kant ma anche quella di Sen, l’agency, la capacità che dipende dalle inclinazioni, dalle vocazioni, dalla crescita dell’uomo nell’ambiente che lo circonda perché possa costruirsi il benessere e l’armonia più appropriati alla sua personalità e al rispetto della libertà e dei diritti di tutti.

Deve essere proprio questo contenuto etico e il caposaldo della libertà che disturba il pensiero forte di governi così deboli da concedere la sovranità dei loro paesi e dei loro popoli a poteri remoti, immateriali ma avidi e implacabili. E che conservano “l’istinto della della catastrofe perché è il prezzo che l’umanità paga in termini sempre maggiori, quanto più cresce la sua capacità di alterare e tenere sotto controllo la natura, incuranti che paradossalmente con la crescita e il profitto illimitato, si distruggano le condizioni stesse che consentono la produzione. Tutto ciò è cominciato secoli fa ma non si è voluta apprendere la lezione: Engels adduceva come esempio delle conseguenze irresponsabili l’incendio delle foreste a Cuba al fine di ottenere ceneri fertilizzanti per le remunerative coltivazioni di caffè, a loro volta esposte senza protezione alcuna alla furia delle piogge tropicali che finirono per spazzare via lo strato superficiale del terreno riducendolo a una distesa di sassi. E inducendo devastazione, carestie che oggi circolano nel mondo come effetto perverso e aberrante della globalizzazione che subiamo come una malattia non avendo saputo e voluto governarla.
Ha fallito il neo liberismo, non regna il loro ”ordine spontaneo”, quello che dovrebbe indurre equilibrio sociale, quasi per volontà divina, diffondendo benessere. Anzi la fame di affaccia come sigillo delle disuguaglianze, dimostra che non è questo il migliore sistema possibile, da temperare e adattare alla crescita e nemmeno il migliore dei mondi possibili, che ne abbiamo dissipato risorse e bellezza. Il tempo concesso è scaduto, all’accumulazione delle catastrofi dobbiamo opporre la speranza della ragione e la forza della ribellione.


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