Qui ci troviamo di fronte a un circo molto goliardico e, nello stesso tempo, dall'inequivocabile sentore vintage (già i colori sono quelli di Atame! e de La legge del desiderio) che fa gridare allo scandalo per un presunto passo indietro del genio castigliano. Io trovo però che dietro quest'ultimo divertissement stia un fortissimo sapore allegorico, perfino un po' claustrofobico e allarmante. La scena, infatti, si svolge su un aeromobile della compagnia Péninsula, che ha un carrello in avaria e rischia di portar con sé un carico di morti. Nella classe economica, hostess e viaggiatori sono stati sedati, mentre in businness class pochi eccentrici passeggeri vogliono fare il bello e il cattivo tempo, contendendosi meriti e demeriti del fato.
Certo, che il volo abbia poche speranze di successo lo si capisce dalle prime battute, quando Léon (Antonio Banderas) e Jessica (Penelope Cruz) - in un cammeo d'eccezione - discutono in piena pista dei loro problemi personali, al posto di caricare i bagagli. Ma è proprio nel sorvolare Toledo in cerca di una pista attrezzata per i soccorsi che si consuma la farsa dell'impotenza: i due piloti - Alex (Antonio de la Torre) e Benito (Hugo Silva) - e una cricca di vanitose star fa del suo peggio durante un volo che, è chiaro, non raggiungerà mai il Messico. Tutta la prima parte del film, per di più, è disseminata di sinistri rimandi a 2666 di Bolaño - ivi comprese misteriose spedizioni ed un'eccentrica sensitiva, Bruna (Lola Dueñas) - che rimescolano un po' le carte. Si aggiunga che il magnifico terzetto di assistenti di volo (Javier Cámara, Carlos Areces e Raúl Arévalo) è incapace di dare sostegno, anche se sa esibirsi in siparietti che farebbero arrossire d'invidia Priscilla & co.
Fa un po' male ammettere che qua e là la coesione di Gli amanti passeggeri sta tutta in un linguaggio sì, disinibito, ma non per questo più libero: quel registro stilistico ha perso ormai da anni la sua fertilità; ciò che forse disturba più di tutto è che in questo modo si ha una dissoluzione dell'eccesso nel mondo linguistico di un umorismo - diciamo così - naïf. L'ultima opera di Almodóvar, più che il buon gusto, smarrisce la grazia e la sorpresa che ancora innervavano titoli anche più problematici e "ostili". Nel divertimento, per la naturale simpatia e con tutto l'affetto di chi, per principio, va sempre a vedere i suoi film, direi che qui il regista e autore ha proiettato su un presente foriero d'angoscia una festosità un po' chiassosa e incapace di fornire l'auspicato sollievo.