Si tratta di una metafora celeste, probabilmente uno dei primi fenomeni naturali che ha destato negli uomini un moto di meraviglia, anche se la contemplazione della natura, come la intendiamo oggi sulla scorta di una tradizione non più antica di qualche millennio, agli albori dell’umanità doveva essere una cosa completamente diversa. Si tratta comunque di una metafora celeste, dicevo, come un effetto di luce pentecostale che dirada o screzia il buio di una giornata cattiva. Irrompe dall’alto e ci invita a tirare su la testa. Gli occhi, il nostro organo più spirituale, avvertono il motivo per cui sono stati creati. E l’arco è un motivo istintivamente architettonico: scintillante riparo, capanna cromatica, finestra aperta sul mondo.
Dopo la pioggia, uomini e donne e bambini si affacciano verso l’aperto e li indicano. Rapiti. Sembra l’inizio di una nuova storia. Anche se dura solo un istante, tanto abbagliante quanto sfuggente.
Ero in classe, oggi pomeriggio, e quando qualcuno ha “sentito” l’arcobaleno (perché poi l’arcobaleno lo si può persino avvertire prima di vederlo), il discorso si è subito impigliato lassù. Tutti alla finestra. L’abbiamo chiamato nelle lingue che sapevamo: Regenbogen, rainbow, arcobaleno, arc-en-ciel. E poi non è stato facile distrarsi da quella distrazione.