Gli attacchi di Boko Haram e il fragile contesto nigeriano

Creato il 23 aprile 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Negli ultimi anni, le principali analisi dedicate al terrorismo islamico sono state spesso rivolte a studiare tale fenomeno nel contesto dell’Alleanza atlantica – in termini di sicurezza interna e di strategie militari nei Paesi sede di operazioni multinazionali – e in quello mediorientale, trascurando di approfondire la forza di penetrazione dello stesso in regioni meno considerate dal punto di vista geopolitico, come l’Africa occidentale. In tal senso, l’articolo si propone di analizzare le complesse ripercussioni dell’integralismo militante di matrice islamica sulla realtà della Nigeria, attraverso le azioni e la strategia del principale gruppo armato di questo Paese, operante in una zona caratterizzata da profonde ineguaglianze sociali e tensioni di carattere etnico e religioso.

 
Le ultime stragi delle milizie islamiche di Boko Haram nel nord-est della Nigeria calamitano nuovamente l’attenzione su di una zona costantemente bersagliata dalla violenza fondamentalista. I massacri si sono susseguiti negli ultimi tre mesi a intervalli di pochi giorni in diverse zone dello Stato del Borno e hanno portato a oltre 1.500 vittime dall’inizio dell’anno1, con centinaia di edifici incendiati e famiglie intere costrette alla fuga. Altrettanto allarmante è il bilancio politico: il governo federale di Abuja conferma le enormi difficoltà nel fronteggiare la crescente potenza di fuoco del gruppo terroristico, che destabilizza i già fragili assetti della Federazione nigeriana.

Per comprendere meglio gli avvenimenti, occorre fare un passo indietro, a partire dalla nascita di Boko Haram nel 2002. La setta integralista islamica viene fondata quell’anno a Maiduguri, capitale dello Stato del Borno, con l’obiettivo di combattere l’influenza occidentale e costituire uno Stato islamico nel nord della Nigeria, sul modello del Califfato di Sokoto che ha dominato la regione nel corso del XIX secolo, prima dell’arrivo della colonizzazione europea2.

Le istanze portate avanti da Boko Haram affondano nel malcontento sociale che pervade gli strati più poveri della popolazione musulmana, muovendosi nel solco del più tradizionale islam politico3. I suoi membri provengono per la maggior parte dall’etnia Kanuri, una componente considerevole dello Stato del Borno, ma predicano in Hausa, lingua del maggiore gruppo etnico del nord della Nigeria, e accostano le rivendicazioni sociali all’applicazione della sharia, contestando sia il governo secolarizzato di Abuja, sia le tradizionali elite religiose islamiche.

Tra il 2002 e il 2009 la setta consolida la sua base, alimentando una campagna contro l’educazione occidentale – da cui deriva il nome della setta in lingua Hausa – e la corruzione del governo, creando scuole alternative e attaccando i simboli del potere, in particolare le stazioni di polizia nel nord del Paese4.

La struttura del gruppo ribelle non risponde a criteri verticistici, né la sua composizione risulta omogenea. Se i vertici dell’organizzazione – compreso il defunto fondatore Mohammad Yusuf – sono ritenuti vicini all’islamismo salafita, il resto degli affiliati è legato a settori diversi della società. Oltre ad attrarre le classi meno abbienti, Boko Haram raccoglie consensi anche tra elementi provenienti da classi istruite e benestanti e viene finanziata da uomini d’affari, ex membri delle forze armate e uomini politici5.

Dopo anni di tensione e una serie di incidenti, nel 2009 inizia lo scontro frontale con le autorità governative che, dallo Stato del Borno, si estende nel giro di pochi mesi ad altri quattro Stati settentrionali. La reazione da parte del governo federale si traduce in una durissima repressione del movimento islamista, attuata attraverso uccisioni sommarie e l’immediata messa al bando dello stesso. Dopo una pausa di un anno, in cui il gruppo sembrava definitivamente fiaccato e annichilito, gli attacchi riprendono e si concentrano nella città di Jos, nello Stato di Plateau, al centro del Paese, già in passato centro di scontri tra cristiani e musulmani. Lo spettro di scontri interreligiosi su vasta scala diventa da questo momento una minaccia reale che rischia di far ripiombare il Paese nell’atmosfera d’inizio anni ‘80: da qui, la decisione del governo di dichiarare lo stato di emergenza in tre Stati del nord-est nel 2011.

Un ulteriore momento di svolta si verifica in occasione dell’elezione a Presidente federale di Goodluck Jonathan nell’aprile 2011. Da quel momento in poi, gli attacchi di Boko Haram trovano nuova linfa sul terreno dello scontro politico: la “molla” è il risentimento diffuso tra i musulmani nigeriani nei confronti del primo Presidente cristiano nella storia del Paese. Jonathan infatti era diventato Presidente una prima volta senza mandato popolare nel 2010, subentrato, in qualità di vice, al musulmano Umaru Yar’Adua, morto quello stesso anno.

Nell’articolata complessità della società nigeriana, caratterizzata dalla difficile coesistenza di più di duecento etnie, le rivalità etnico-religiose hanno nella frattura tra il nord prevalentemente musulmano e il sud a maggioranza cristiana uno degli elementi più evidenti di instabilità.
Risulta evidente in questo frangente, la precarietà di un assetto risalente ai tempi della colonizzazione inglese, che ha riunito sotto un’unica bandiera realtà disomogenee dal punto di vista etnico-religioso.

La situazione degenera ulteriormente, e gli attacchi dell’agosto 2011 al quartier generale della polizia e alla sede dell’ONU della capitale Abuja rappresentano un salto di qualità nella strategia della setta, che in tal modo acquisisce una visibilità internazionale. Gli episodi dimostrano infatti che i miliziani possono colpire nel cuore della Federazione nigeriana con modalità tipiche del terrorismo islamico.

L’impiego di tecnologie più sofisticate e la dinamica degli attentati fa quindi sospettare l’esistenza di una rete di collegamento con Al-Qaeda per il Maghreb islamico (AQMI) e gli Al-Shabab somali.

Nelle cancellerie occidentali si diffonde il timore che la Nigeria possa diventare un altro Paese colpito dal terrorismo islamico. In quest’ottica, si possono leggere le dichiarazioni dell’agosto 2011 del generale Carter Ham, capo dell’US Africa Command, secondo cui Boko Haram, AQMI e Al-Shabab stessero da tempo coordinando le loro operazioni in Africa, condividendo risorse finanziarie e campi di addestramento6. Sulla scorta di queste osservazioni e di altre indagini dei servizi di intelligence, nel novembre 2013 Boko Haram viene inserita nella lista di “gruppi terroristici stranieri” stilata dal Dipartimento di Stato USA, così come il gruppo affiliato Ansaru, autore di sequestri a scopo estorsivo ed omicidi nei confronti di lavoratori stranieri presenti in Nigeria.
Il governo statunitense sembra quindi ritenere fondato il pericolo di un collegamento tra le diverse frange del terrorismo islamico in Africa e decide di sostenere il governo nigeriano nel tentativo di fermare l’escalation. In questo quadro si inserisce la formazione del Nigerian Army Special Operations Command (NASOC), organismo cui l’esercito statunitense in Africa fornirà addestramento e parte dell’equipaggiamento7.

La probabile esistenza di un network internazionale non può tuttavia sminuire l’importanza del contesto locale in cui muove l’azione della setta nata nel Borno. In questo senso, le rivendicazioni dei capi di Boko Haram nel 2012 hanno fornito una lettura alternativa sugli obiettivi della loro azione violenta, manifestando più un desiderio di vendetta nei confronti del governo che una strategia di ampio respiro per abbattere le istituzioni dello Stato secolare8.

D’altra parte, molti osservatori locali considerano Boko Haram come l’effetto piuttosto che la causa del caos sociale che affligge il nord della Nigeria. La zona racchiude infatti tutte le principali problematiche della regione del Sahel: povertà endemica, scarso accesso ai servizi di base, mancanza di strutture educative e sociali, alto tasso di crescita della popolazione e porosità dei confini.

Inoltre, il carattere peculiare di tale organizzazione non la rende immediatamente assimilabile ai più classici gruppi jihadisti desiderosi di imporre la sharia, ma sarebbe diventata una sorta di brand dietro cui si nascondono ambizioni di varia natura quali criminalità comune, uomini politici e membri delle forze di sicurezza provenienti dal nord e avversi al Presidente Jonathan, con l’obiettivo politico di destabilizzare la presidenza di Abuja.

Secondo i servizi di sicurezza nigeriani, il gruppo conterebbe attualmente su oltre mezzo milione di affiliati, un numero legato in parte alla forte emigrazione proveniente dalle zone rurali di Ciad, Niger e Camerun verso gli Stati del nord del Paese9. In questa zona, la porosità dei confini agevola il traffico di armi e le azioni di proselitismo di Boko Haram, situazione che ha spinto il governo nigeriano a chiedere la cooperazione di quello camerunense10. Da parte loro, i rappresentanti di Yaoundé hanno deciso di rafforzare i controlli alla frontiera con il duplice obiettivo di fermare un possibile contagio integralista e contenere allo stesso tempo il massiccio arrivo di civili nigeriani in fuga dalle violenze stragiste.
Le autorità nigeriane hanno rivolto un’attenzione analoga già da qualche anno al confine con il Ciad, attraverso una maggiore concentrazione di forze11.

Infine, vanno registrati i pesanti effetti di questo conflitto sul piano dei diritti umani e sul versante umanitario. Secondo Amnesty International, le operazioni condotte dalle forze di sicurezza nigeriane contro Boko Haram nel nord del Paese hanno determinato un aumento del ricorso alla tortura e ad altri trattamenti degradanti contro i detenuti sospettati di appartenere al gruppo terroristico. L’unità speciale (Joint Task Force) e il Dipartimento dei Servizi di Sicurezza di Stato hanno arrestato oltre 1.000 persone tra gli Stati del Borno e di Yobe, le quali non sono mai state sottoposte a processo, né hanno avuto accesso ad un avvocato12.
Fonti locali affermano che l’estensione dello stato di emergenza non ha aiutato a ridurre la violenza, mentre è aumentato il numero di vittime e di sfollati nella zona13.

Secondo i dati dell’UNHCR, l’impatto delle operazioni militari negli Stati di Borno, Yobe e Adamawa hanno riversato nei confinanti Niger e Camerun, più di 10.000 rifugiati in cerca di asilo. Allo stesso tempo, il numero reale di sfollati interni rimane ancora incerto14.

La nuova proclamazione dello stato di emergenza nel maggio 2013 – tuttora in vigore – non è servita a fermare i massacri degli ultimi giorni nel nord-est della Nigeria. E mentre nella parte settentrionale del Paese, gli integralisti continuano i loro attentati contro forze di sicurezza, minoranze cristiane e cittadini musulmani, si teme che la minaccia integralista possa addirittura raggiungere la zona petrolifera nel sud del Paese. Qui entrerebbe in collisione con il Movimento di Emancipazione del Delta del Niger (MEND), il quale si è detto pronto a rispondere a un eventuale attacco di Boko Haram15, con esiti imprevedibili per l’economia e la tenuta sociale del maggiore produttore di greggio del continente africano.

In conclusione, la frequenza degli attacchi che si susseguono nel nord ha assunto le sembianze di una guerra asimmetrica, della quale il governo non potrà venire a capo attraverso una risposta esclusivamente militare. La strategia governativa dovrebbe includere infatti anche una mediazione politica tra le varie anime di un Paese diviso e profondamente ineguale, in modo da affrontare le cause del malcontento alla radice del fondamentalismo di Boko Haram. La priorità interna del governo dovrebbe essere quella di disarticolare il blocco sociale da cui attinge linfa vitale la setta fondamentalista attraverso una maggiore attenzione ai problemi economici e sociali, come l’alta disoccupazione e la mancanza di istruzione che convincono molti giovani a combattere come ultima risorsa di sopravvivenza.

Il richiamo all’unità nazionale a più riprese invocato da Goodluck Jonathan negli ultimi anni dovrà quindi tradursi in un obiettivo dell’azione di governo e non restare un semplice monito.

Sul piano internazionale, il rischio di uno stato di conflitto permanente in Nigeria potrebbe diventare elevato, con ricadute inimmaginabili per lo sviluppo della regione e la diffusione del verbo jihadista nell’Africa occidentale. Probabilmente, la Comunità Internazionale dovrà dimostrare maggiore interesse nei confronti della situazione in Nigeria e considerare il rischio che le istituzioni del Paese africano vengano progressivamente fiaccate al proprio interno dal terrorismo. Il “precedente nigeriano” potrebbe creare nuovi stimoli per i gruppi combattenti islamici e destabilizzare altri Paesi della regione. Dunque, occorrerà una cooperazione ampia che coinvolga attori esterni alla Nigeria, affinché tale Paese non rimanga isolato sul piano internazionale, come avvenuto nel caso dell’Algeria, che a partire dagli anni ‘90 ha fronteggiato il fondamentalismo islamico attraverso un processo di militarizzazione dello Stato e la chiusura delle frontiere, con costi elevatissimi sul piano economico e dei diritti civili. In tal caso, non vi sarebbe tanto il rischio di una vittoria militare di Boko Haram, quanto quello di una vittoria morale dell’organizzazione fondamentalista sulle ragioni di una convivenza civile e democratica, fondamentale per uno Stato moderno.


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