Gli elefanti d’argento

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

E fu così che il sole cadde. Di giorno. E con lui caddero i miei sogni di libertà, le mie speranze di un domani migliore, i ricordi di un tempo che non sarebbe mai più ritornato.

E dopo venne il buio, le tenebre, il silenzio. Il respiro affannato, le tempie che pulsano, il cuore che rallenta, si ferma, prende fiato, torna a battere, ma poi rallenta di nuovo.

E la luce. Di nuovo la luce. Per un attimo. Per un piccolo istante il mondo riprende a girare, le voci si fanno assordanti, il dolore incessante. Chi sono queste persone che mi stanno intorno? Cosa vogliono da me? Dove sono?

Una bestemmia. Ecco la prima cosa che capisco. Non parlo la loro lingua, ma capisco qualche parola. Soprattutto parolacce. Non è colpa mia. E’ così che mi si rivolgono. E allora ricordo tutto. Ricordo la traversata, l’arrivo di notte e il freddo pungente dell’acqua del mare. Ricordo la paura di annegare, un uomo che mi aiuta a raggiungere la riva e la corsa disperata per sfuggire alla polizia. Una strada. Poche macchine che sfrecciano, mi puntano i fari accecanti sul viso, poi mi superano. E un uomo. Ricordo il suo alito che puzza di caffè, le bestemmie perché siamo meno di quanti ne aspettava. E le parolacce. Gli insulti con cui ci dice “Fatevi trovare qui domani alle cinque, se volete lavorare”.

E allora capisco tutto. Il sole è ancora al suo posto. Io no. Disteso a terra, annaspo alla ricerca di aria da respirare, mi contorco e mi obbligo a pensare che tutto andrà meglio.

Ricordo…

Ricordo di un tempo, quando ero bambino, in cui sedevo intorno al fuoco ad ascoltare le favole narrate dal vecchio saggio del villaggio. Le parole che uscivano dalla sua bocca alimentavano le fiamme e il crepitio del fuoco si trasformava in una voce magica che raccontava di terre sconosciute, di animali leggendari e di amori perduti.  Intorno solo il rumore, lontano, delle onde del mare e il fruscio dei pochi alberi accarezzati dal soffio del vento.

Il vecchio saggio portava sulla pelle le cicatrici di un tempo remoto, di cui nessuno aveva più memoria, un tempo in cui gli dei abitavano le nostre terre e gli animali e gli uomini vivevano in pace. Il suo corpo era poco più robusto di un arbusto, i suoi occhi avevano smesso di guardare la luce del giorno, le sue gambe, stanche, non calpestavano più le nostre terre. Eppure, la sua voce, era ancora capace di ricamare storie magiche che ci strappavano alla sera per condurci al di là dei nostri sogni, verso vite che non avremmo mai vissuto.

La mia leggenda preferita parlava di un re e di una regina. I due sposi, belli come dei, abitavano in una terra ricca e feconda, piena di immensi prati verdi e fiumi azzurri come il cielo. Un giorno, i due sovrani, decisero di fare una passeggiata nei loro possedimenti, per vedere come fosse la vita nel loro regno. Per far ciò, senza essere riconosciuti, si vestirono da mendicanti, quindi uscirono dal palazzo senza portare alcuna guardia al seguito. Girarono di città in città, alla ricerca di un po’ di cibo e di qualcuno che li ospitasse. La gente del regno, però, abituata alla ricchezza del territorio, non conosceva la povertà, così che nessuno aiutò i due mendicanti, temendo si trattasse di un inganno messo in atto da qualche oscuro stregone per rubare le loro ricchezze. Fu così, quindi, che i due sovrani si rivelarono al popolo, rimproverando la loro mancanza di generosità. A nulla valsero le scuse degli abitanti del regno, perché il re e la regina decisero di abbandonare quelle terre, portando con loro i prati ed i fiumi. I due sovrani scapparono sulla Luna cavalcando due elefanti d’argento, promettendo al loro popolo che un giorno sarebbero tornati. Nel frattempo, però, la gente del regno avrebbe dovuto conoscere la miseria ed aiutarsi a vicenda per vivere in quelle terre che, ormai, rispecchiavano l’aridità dei loro cuori.

Questa, a detta del vecchio saggio, era la leggenda della nascita dei deserti dell’Africa.

Amavo quella storia, ed ogni sera guardavo la Luna alla ricerca dei due sovrani che, seduti da qualche parte, osservavano il loro popolo, pensando al momento del loro ritorno.

Quando il vecchio saggio finiva di raccontare buttava la terra sul fuoco. Una volta che anche l’ultima fiamma si estingueva, dalle ceneri si alzava una sottile lingua di fumo che saliva verso il cielo, mentre noi bambini tornavamo alle nostre capanne immaginando di cavalcare gli animali fatati che la voce del vecchio saggio disegnava nelle nostre menti.

Più crescevo e più tempo passavo a fissare la Luna. Ero deciso a trovare il re e la regina della leggenda per riportarli sulla nostra terra, per farla ritornare florida come un tempo.

Fissavo la Luna anche quella sera che conobbi Sahaiya. Fu la sua voce a strapparmi alle mie ricerche lunari. Quando mi voltai rimasi stupito di fronte a lei, rapito come mai nemmeno la Luna aveva saputo fare. Era bellissima. La pelle nera come una notte senza Luna era illuminata dagli occhi splendenti più delle stelle più luminose del firmamento. I capelli ricci e il sorriso bianco più dell’avorio. Mi innamorai di lei prima ancora di conoscere il suo nome.

Da quel giorno iniziammo a guardare insieme la Luna, ogni sera, e nelle notti in cui il cielo era illuminato solo dalle stelle, passeggiavamo in riva al mare, mentre le onde, dispettose, ci bagnavano i piedi nudi.

Fissammo la Luna anche la notte prima della mia partenza. “Se veramente esistono il re e la regina della leggenda”, le dissi, “dovrebbero tornare in questo momento e restituire a questa terra lo splendore e la ricchezza di un tempo. Così io non sarò costretto a partire”

Lei avvicinò il suo indice alle mie labbra e mi disse di tacere.

“Il re e la regina torneranno quando noi saremo pronti. Tu parti per dimostrare loro che quel momento arriverà presto. Abbiamo conosciuto la miseria e il peso dei sacrifici. Domani lascerai il tuo villaggio consapevole che, quando tornerai, lo troverai fecondo come un tempo, anche grazie al tuo sacrificio. Ed io sarò qui ad attendere il tuo ritorno. E con me sarà anche la piccola creatura che sta crescendo nel mio ventre”

Il giorno dopo lasciai il villaggio prima dell’alba, obbligandomi a non guardare indietro. La Luna era quasi completamente cancellata dalle prime luci del giorno. Camminai per ore. E poi quelle ore divennero giorni, fin quando raggiunsi la mia meta.

Le luci del giorno si arrendevano ormai alle ombre della sera. Eravamo in tanti in riva al mare. Decine e decine di corpi senza un’anima. Alcuni uomini ci urlarono di imbarcarci su una piccola barca che sembrava inadatta ad affrontare quella lunga traversata. Il mare nero come l’inchiostro sembrava volesse inghiottire da un momento all’altro quella piccola arrogante imbarcazione che sfidava l’immensità marina.

Passammo ore lunghe come secoli su quella minuscola barca. Molti di noi non riuscirono a sopportare le condizioni disumane di quella traversata, e i nostri traghettatori, che al pari di Caronte conducevano le anime perse negli inferi, buttavano i loro corpi in mare.

Dopo non so quanto tempo ci urlarono di saltare in acqua, perché loro non avrebbero potuto avvicinarsi di più. Ci assicurarono che la riva era vicina. E noi ci fidammo. Il mare agitato e freddo ci penetrò la pelle. Io nuotai spingendomi ben oltre le mie forze, cercando di pensare a Sahaiya. Quando, però, capii che il mio corpo, intorpidito, stava per abbandonarmi, sentì la salda presa di un uomo, che mi aiutò a stare a galla. Una volta raggiunta la riva, non potei nemmeno ringraziarlo, poiché questi mi disse di correre, perché se mi avessero preso, mi avrebbero mandato di nuovo indietro. E tutto sarebbe stato inutile.

Corsi più veloce che potei e mi nascosi in un bosco vicino alla spiaggia. Qui vidi il mio salvatore che, piegato sulle gambe, cercava di riprendere il fiato. Poi lo seguì fino alla strada. Passavano poche macchine. Sfrecciando lasciavano una scia luminosa nella notte buia. Aspettammo per un’ora, senza parlare. Alla fine, quando le luci dell’alba iniziavano a colorare il cielo, un furgoncino si fermò vicino a noi. Il guidatore abbassò il finestrino e ci scrutò, in silenzio, per un minuto, quindi, ci disse di salire e non fare domande se volevamo lavorare. L’uomo che mi aveva salvato la vita mi spiegò che il proprietario del furgoncino si era messo d’accordo con i traghettatori perché aveva bisogno di manodopera. Ero appena arrivato e già avevo trovato un lavoro. Mi sembrava un sogno, ma era un incubo.

Quando arrivammo al campo di pomodori l’uomo del furgoncino, insultandoci, ci disse di scendere. Altri uomini bianchi ci vennero vicino e ci spinsero verso le nostre postazioni. L’uomo che mi aveva salvato la vita, e che io consideravo, ormai, il mio unico amico, mi spiegò il lavoro. Raccogliemmo pomodori per un’intera giornata. Continuammo a raccogliere pomodori anche al buio, illuminati solo dalle deboli luci delle torce dei nostri aguzzini bianchi. Quando questi spensero le torce sentimmo suonare il clacson del furgoncino. Il guidatore ci urlava contro e gesticolava di sbrigarci e salire. Quella sera ci riportò nel bosco dove ci aveva trovati, dicendoci che sarebbe tornato a prenderci verso le quattro del giorno dopo. Avremmo avuto solo poche ore di sonno. Ed io non mangiavo, ormai, da due giorni.

Ma ora i ricordi si diradano, la Luna, i sovrani, gli elefanti d’argento Sahaiya. Tutto si fa scuro. Da quando sono arrivato in questo Paese maledetto ho dovuto dormire in strada, mangiare quel che trovavo, cercando di rubare qualche pomodoro, stando ben attento a non essere scoperto, lavorare sotto la pioggia e il sole cocente.

E adesso sono steso a terra, a contorcermi per cercare aria da respirare. Intorno a me altri schiavi mi guardano e sanno che prima o poi accadrà anche a loro. Il mio cuore inizia a battere forte. Troppo forte. Intorno a me urla, parolacce, bestemmie. Dicono che sono inutile, che non avrebbero dovuto farmi lavorare. Che adesso dovranno abbandonarmi in qualche campagna, altrimenti potrebbero essere scoperti. Che…

Il mio cuore termina la sua assurda galoppata e si ferma. Nell’ultimo istante di lucidità riesco a fare un estremo respiro, che sa di presa in giro. Volto la testa alla ricerca della Luna. E’ giorno, eppure mi sembra di vederla. Sì, la vedo. Li vedo. Vedo i due sovrani che mi guardano. E allora sorrido, perché so che il mio sacrificio li riporterà di nuovo indietro, così che la mia Sahaiya e il mio bambino possano vivere su terre verdi di pascoli e innaffiate da fiumi azzurri come il cielo.

E alla fine venne il buio. Questa volta per sempre.


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