Gli errori degli economisti

Creato il 31 agosto 2011 da Elvio Ciccardini @articolando

L’economia è una disciplina intellettuale umile, che non ha la presunzione di preveggenza e che indaga su un “oggetto”, il sistema economico, mutevole e di difficile comprensione, che è, per molti suoi aspetti, ancora non conosciuto (Paolo Biffis).
Eppure, negli ultimi anni, in più parti del mondo, si è aperta una forte discussione sul ruolo che gli economisti hanno nelle società, come se fossero questi ultimi a condurre e gestire il sistema economico, tenendone le redini. Non è così. E’ per questo che sono stati tacciati di incapacità, nel non prevedere le crisi recenti, e di eccessivo attaccamento ad un approccio matematico applicato, a discapito di approcci multidisciplinari, che tengano maggiormente conto di aspetti psicologici e sociali.

In realtà, è più probabile che gli economisti commettano errori, tanto quanto si cade in errore nell’aspettarsi dagli economisti la soluzione ad ogni male dell’economia stessa.
Questi cercano di districarsi all’interno di un mondo reale estremamente complesso, con strumenti e metodologie di analisi, che ne permettano la semplificiazione e la comprensione di alcuni aspetti, non del suo insieme.
La confusione, nata dalla crisi economica, ha colpito ogni livello e strato delle società occidentali. Non è un caso che la Regina Elisabetta d’Inghilterra, nel Novembre 2008, in occasione di una sua visita alla London School of Economics, chiese come mai solo pochi economisti avessero previsto il credit crunch. Alla domanda risposero i professori Tim Besley e Peter Henneswsy. Successivamente, dieci economisti “istituzionalisti” del Regno Unito, scrissero alla Regina stessa, rispondendo a Besley e Hennessy, affermando che l’economia si è virtualmente trasformata in una branca della matematica applicata, estraniandosi dal mondo reale e dalle sue istituzioni.
In effetti, la maggior parte dei dipartimenti universitari di economia, a livello mondiale, è concentrata su un numero ristretto di tecniche formali. Ciò ha distolto dalla comprensione dei problemi nel loro insieme. La stessa discussione ha diviso gli economisti francesi tra tradizionalisti, esperti di micro e macroeconomia e di econometria, e una molteplicità di critici che accusano l’economia di essere immorale, troppo matematica, non sufficientemente pluridisciplinare.
Nessuna delle due correnti di pensiero sbaglia. Da un lato l’economia ha bisogno di modelli metodologici mirati, che siano in grado di analizzarne i meccanismi e di comprenderne le dinamiche. Tuttavia, questi modelli non hanno capacità predittiva, sono limitati, non spiegano l’insieme. Dall’altro, l’economia è una materia arida, priva di etica e morale, troppo spesso sopravvalutata nell’essere considerata fondamento di benessere sociale e condizionata da fattori esterni alla ricerca economica dai quali non si può prescindere.
Può sembrare banale, ma la comprensione del valore della ricerca economica, dei suoi limiti e delle sue potenzialità, è individuabile nei contesti lavorativi in cui operano gli economisti, dalle università, alla pubblica amministrazione, passando per le imprese.
Docenti e ricercatori universitari sono impegnati nello studio delle metodologie e nella definizione di risultati empirici di analisi, nonché nella definizione di teorie. I consulenti della pubblica amministrazione si occupano tendenzialmente della valutazione delle politiche pubbliche e delle scelte di politica economica. Gli economisti che lavorano nelle imprese si occupano di processi antitrust, di violazione delle regole di concorrenza, ecc.
Poi ci sono gli analisti, per intenderci i colletti bianchi delle istituzioni finanziaria. Tuttavia, essi sono impegnati in attività routinarie e non nell’elaborazione di modelli per la previsione di eventi occasionali o rari che colpiscono il sistema economico.
In realtà, una delle più grandi rivoluzioni concettuali degli ultimi trenta anni, nelle società occidentali, riguarda il ruolo che il sistema economico ha all’interno di uno Stato. Questo gli economisti non potevano prevederlo.
Nel periodo precedente alla caduta del muro di Berlino, il sistema economico, capitalismo o economia socialista, era espressione di un’ideologia. L’organizzazione del mercato era sequenziale ad un pensiero politico e sociale che ne definiva modello, attori e norme di comportamento. Inoltre, tutti gli attori economici sottostavano a quel modello ideologico e al suo sistema di regole. Infine, i contatti e le interdipendenze tra attori economici, appartenenti a modelli differenti, erano limitati o quasi nulli. Così gli economisti, dato un modello di riferimento, ne analizzavano i limiti, le potenzialità e i possibili percorsi evolutivi.
Il primato del pensiero ideologico si affermava sulla definizione di un modello di Stato e, successivamente, di un sistema economico. L’eticità dell’economia derivava dall’affermazione del pensiero ideologico, al quale tutti sottostavano.
Oggi, al contrario, il sistema capitalista si è trasformato in una sorta di capitalismo globale che non è supportato da alcuna visione di stato e di società, senza il quale è impossibile definire delle efficaci politiche economiche.
Da questo rovesciamento di ruoli, il sistema economico si afferma sui sistemi politici, surclassandoli, e sui sistemi sociali, condizionandoli. Da qui nasce uno degli errori concettuali dell’epoca moderna, cioè quello di sperare che gli economisti, in quanto studiosi della materia, possano rispondere ai problemi sociali di oggi. Non è così.
Nelle ultime settimane, i giornali hanno riempito pagine di inchiostro su come i mercati finanziari abbiano condizionato pesantemente le scelte dei governi europei, minacciando fallimenti di interi sistemi paese, tra l’altro già verificatisi in passato. La politica ha risposto con delle politicy nate ad hoc, cioè dettate da logiche prettamente economiche e non di impostazione politico sociale. In sintesi, gli attori economici dettano le regole di sviluppo politico e sociale.
Questo espediente segna, però, il passo ad una svolta epocale in cui la sovranità popolare, espressa attraverso il sistema politico, viene sostituita dalla sovranità degli attori economici. Questi ultimi non sono ovviamente gli economisti, ma i datentori di capitali.
Paradossalmente, senza modelli ideologici di riferimento, gli Stati rischiano il passaggio, almeno in occidente, dalle democrazie liberali della fine del novecento, all’anarchismo del capitale. In questa ultima prospettiva, il ruolo degli economisti, nella comprensione del sistema economico, diventa nullo e vuoto, poiché verrebbe meno l’oggetto da analizzare, cioè la struttura del sistema economico, così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. Sarebbe illogico non riconoscere il fallimento o l’impotenza degli economisti, di fronte al fallimento di un sistema economico. Così come sarebbe illogico non riconoscere il fallimento o l’impotenza della medicina di fronte all’estinzione della specie umana.


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