Magazine Cultura

Gli Esercizi di stile di Queneau, ovvero come trasformare un incubo traduttivo in un gioco

Creato il 03 febbraio 2014 da Thais @la_traduttrice

punto-interrogativoPerché non ho letto prima gli Esercizi di stile? Da ragazzina avevo adorato Zazie nel metrò, e in fondo sapevo che Queneau non mi avrebbe delusa neppure stavolta. Ma ho sempre avuto paura di questo libro così atipico, particolare e da tutti lodato.

A mano a mano che mi gustavo una pagina dopo l’altra, però, riuscivo a pensare solo una cosa: Queneau era un genio. L’idea di prendere un episodio banale come un mezzo litigio sull’autobus e trasformarlo in un caleidoscopio di punti di vista, sensazioni e infinite variazioni non è da tutti. L’avvenimento, descritto all’incirca in mezza paginetta, si mostra in tutte le sue sfaccettature trasformando la lingua in una sostanza viva e plasmabile, dalle possibilità illimitate. Temevo che sarebbe stato noioso leggere la stessa banale storiella per decine di volte consecutive. E invece Queneau è riuscito a stupirmi a ogni pagina, facendomi ridere e sgranare gli occhi, lasciandomi stupefatta, talvolta confusa perché ci mettevo un po’ a trovare la chiave per decifrare l’esercizio che stavo leggendo. Ma una volta scoperta, che piacere meravigliarsi ancora una volta!

Perché parlo degli Esercizi di stile su questo blog? Ma ovviamente perché sono un incubo traduttivo. Non solo giochi di parole, ma figure retoriche a manciate, sintassi ai limiti dell’assurdo, accostamenti lessicali spericolati: la lingua è così strettamente connessa a questo libro che una classica traduzione appare quasi impossibile.

E infatti Umberto Eco, da grande linguista qual è, si è dedicato a riscrivere questi esercizi adattandoli alla nostra meravigliosa lingua, e il risultato è a mio avviso riuscitissimo: in alcuni casi, andando a guardare il francese a fronte, trovavo persino migliore la resa italiana.

Non sapete di cosa sto parlando e siete curiosi? Partiamo dal primo esercizio, “Notazioni”, direttamente in italiano per comodità:

“Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore piú tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in piú al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.”

Eccolo qui l’episodio, in tutta la sua banalità. Ma che fare quando ci troviamo davanti a un esercizio come Distinguo”? Eccone l’inizio, in francese:

“Dans un autobus (qu’il ne faut pas prendre pour un autre obus), je vis (et pas avec une vis) un personnage (qui ne perd son âge) coiffé d’un chapeau (pas d’une peau de chat) cerné d’un fil tressé (et non de tril fessé). Il possédait (et non pot cédait) un long cou (et pas un loup con). Comme la foule se bousculait (non que la boule se fousculât), un nouveau voyageur (et non veau nouillageur) déplaça le susdit (et non suça ledit plat).”

E così via, in un gioco di omofonie impossibile da riprodurre “fedelmente” in italiano. Ma che cos’è la fedeltà? In questo caso, restituire al lettore italiano una serie di acrobazie simili a quelle inventate da Queneau, indipendentemente dalle singole parole utilizzate. Ecco l’inizio della traduzione di Eco di questo brano:

“Un bel dí sul torpedone (non la torre col pedone) scorsi (ma non preteriti) un tipo (non un carattere a stampa) ovvero un giovinotto (che non era un sette da poco cresciuto), munito (sí, ma non scimunito) di un cappello incoronato (non incornato) da un gallone (non di birra), e con un lunghissimo collo (non postale). Costui si mette ad apostrofare (ma non a virgolettare) un passeggero (a cui però non vende almanacchi) e lo accusa (anche se non è un dolore) di pestargli i piedi (non del verso) ad ogni fermata (che non è una ragazza caduta in una retata).”

Meno omofonie, difficili da trovare in una lingua come la nostra, ma dei veri e propri “distinguo” come forse li avrebbe potuti scrivere Queneau se fosse stato italiano.

E che dire del linguaggio da “Paysan” che Eco trasforma in un divertentissimo “Contadino”? (“Uno poi dice la vita, neh… Ero montato sula coriera, no? e vado a sbatere in un balèngo col colo che somiliava ’n polastro e ’n capelino legato con ’na corda, che mi cascasero gli ochi se dico bale [...]”).

Com’è abbastanza ovvio, gli “Italianismes” ipotizzati da Queneau (“Oune giorne en pleiné merigge…”) si trasformano per Eco in “Francesismi”: “Allora, un jorno verso mesojorno…”. Si potrebbe pensare che gli anglicismi siano rimasti pressoché invariati, e invece ogni lingua assorbe il lessico e la sintassi altrui in modo diverso: è così che “Un dai vers middai, je tèque le beusse” diventa “Un dèi, verso middèi, ho takato il bus”.

Già da questi pochi esempi si può intuire come la traduzione in questo caso sia un vero e proprio esercizio di stile, al pari di quelli ideati da Queneau. Certamente non un lavoro da principianti, ma comunque una godibilissima riflessione su come sia necessario ponderare sempre quale sia l’aspetto dominante del testo che ci apprestiamo a tradurre.

Non trovate che la traduzione di “Auditif”Coinquant et pétaradant, l’S vint crisser le long du trottoir silencieux” sia nell’italiano “Auditivo” quasi più efficace che in francese? “Dringhete dranghete, sussultando, sbuffando e tossicchiando, ecco l’Esse che stride lungo il bordo sfrigolante del marciapiede…”. Pare proprio di sentirlo! Io la trovo una cosa molto rassicurante: non sempre in traduzione si perde qualcosa, a volte si riesce anche a guadagnare.

Insomma, un libro certamente fuori del comune, spiritoso, divertente ed estremamente interessante per chiunque sia affascinato dalle sfide traduttive.



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :