Gli immigrati “arruolati” etnicamente

Creato il 06 ottobre 2010 da Gadilu

Alcuni giorni fa, a Bressanone, un incontro dei quadri dirigenti della Svp ha ratificato un programma di massima al fine di affrontare il “problema” dell’immigrazione. Pongo il termine “problema” tra virgolette perché non è affatto scontato che l’immigrazione, pur non sottovalutandone le difficoltà, sia vista soltanto come un “problema”. Anzi, applicando al fenomeno un punto di vista più mobile, si potrebbe anche cogliere in esso sia la soluzione di molti nostri problemi (gli immigrati arrivano attratti fondamentalmente da possibilità di lavoro esistenti, non dimentichiamolo), sia una vera e propria opportunità di crescita e arricchimento generalizzato. Non solo economico, ma anche e soprattutto culturale.

Lasciamo però adesso in sospeso questo auspicabile scatto cognitivo e restiamo al tema dell’immigrazione considerata come “problema”. Nel programma di massima citato, si cerca lodevolmente di opporsi al gergo populistico che da qualche anno riscuote parecchio successo – con diverse sfumature, andando dai brutali “cacciamoli fuori” o “non facciamoli entrare” all’apparentemente più conciliante “comunque prima noi e poi loro” – ricorrendo al potere evocativo della parola “integrazione”. Se i flussi migratori si manterranno sui livelli degli ultimi anni, si ripete facendo appello alla ragionevolezza, ogni tentativo di chiuderci a riccio è comunque votato allo scacco. Si tratta perciò di accogliere e assorbire i nuovi venuti nella nostra società, facendo in modo che ne diventino parte attiva e consapevole.

Tutto bene, dunque? Non tanto. Perché calata nel nostro contesto, l’integrazione può sottostare a strani presupposti e originare ancora più strani effetti collaterali. Infatti, come può configurarsi l’inserimento di persone provenienti da un altro luogo in una terra, come la nostra, già di per sé caratterizzata da una molteplicità culturale non ancora del tutto priva di tensioni? Il rischio è quello di ridurre l’integrazione a una mera variazione del meccanismo necessario al mantenimento dell’equilibrio numerico tra i gruppi linguistici preesistenti, inaugurando così una lotta decisamente grottesca per “arruolare” tra le proprie fila individui già oberati da una difficile e delicata ristrutturazione del loro “patrimonio identitario”. Cercare insomma di farne prima di tutto dei “tedeschi” o degli “italiani”, costringerli a scegliere da quale “parte” stare, anziché offrire loro (e indirettamente anche a noi!) l’opportunità di poter vivere al di là delle divisioni e delle incomprensioni che ci hanno fin qui caratterizzato e purtroppo ancora ci caratterizzano. O dobbiamo forse pretendere che essi si adattino al nostro modo di vita immedesimandosi anche nei suoi aspetti più criticabili?

Corriere dell’Alto Adige, 6 ottobre 2010