Consigliatomi vivamente da un grosso libraio barbuto di piazza Campo dei Fiori, questo romanzo aveva tutti i requisiti per piacermi. Roma negli anni Cinquanta, vista da alcuni giornalisti americani costituisce una magnifica occasione per raccontare quegli anni da un punto di vista insolito. E poi le vicende legate ai numerosi personaggi che scrivono un giornale ci permettono di entrare in un microcosmo affascinante, cosa che ci incuriosisce ancora di più ora che i giornali sono in via d’estinzione. Ma non c’è niente di tutto questo ne Gli imperfezionisti.
La sua è una coralità inutile e sprecata perché i personaggi non si incontrano mai. Non li vediamo insieme, non confluiscono in una storia unica, ma restano divisi, separati, chiusi ognuno nel proprio capitolo. Ci sono tante storie frammentate e questo, si sa, non è coinvolgente.
Sì, ma qui sono tutti tristi, sfigati e incapaci di comunicare tra loro!
Un gruppo di giornalisti che trascina la propria vita fra cinismo, cialtroneria, bassezze e solitudine. Piccole vite banali e senza ambizioni. Gente mediocre, sciatta, per niente interessata al proprio lavoro che svolge con ostilità, acredine e senza convinzione.
Tutto questo è più realistico?
E se lo fosse, a noi di queste persone che ce ne importa?
Ok, è la storia di un giornale, ma la letteratura non è un documentario.
Imperfezionisti vuol dire “imperfetti senza alcun desiderio di migliorare”, vuol dire “ostinatamente e cocciutamente carenti”. Di sicuro questo modello travalica la categoria dei giornalisti e abbraccia una ben più vasta compagine umana: d’accordo, ma questi immobili ostinati, sebbene molto diffusi, sono i meno interessanti di cui occuparsi.
Ecco come viene descritto Arthur, il redattore di necrologi:
«Lui si presenta al lavoro, si abbandona sulla sedia girevole e resta immobile.
Non è morto nessuno. O meglio, sono morte 107 persone nel minuto precedente, 154.000 nella giornata passata e 1.078.000 nell’ultima settimana. Ma nessuno che conti. Bene: sono passati nove giorni dal suo ultimo necrologio e lui spera di estendere la sequenza. Il suo obiettivo complessivo al giornale è l’indolenza, pubblicare con la minor frequenza possibile e sgattaiolare via quando nessuno presta attenzione. Queste ambizioni professionali le sta sod- disfacendo in maniera straordinaria.»
Frustrazione, diffusa incapacità di raggiungere i propri obiettivi, vuoi nella vita sentimentale, che in quella professionale. Il giornale non sfugge a questa vocazione fallimentare. Non è certo all’avanguardia della tecnologia, visto che non ha neanche un sito web. Da sempre in perdita, tenuto in vita dall’ostinazione di un uomo per amore di una donna che non solo non avrà mai, ma alla quale non lascerà minimamente trapelare il suo sentimento: né a lei, né a noi poveri lettori del resto, che lo scopriremo buttato lì in un cassetto, in un paio di righe finali.
Tom Rachman, 36 anni, anglo-canadese, ha lavorato a Roma per l’Associated Press e poi ha fatto il giornalista in molti altri paesi. Questo è il suo romanzo d’esordio ed è stato universalmente acclamato, perciò io costituisco una rara eccezione, ma non l’unica:
«Autoreferenzialità e isolamento sembrano essere caratteristiche dello stesso Rachman oltre che dei suoi personaggi. Paradossalmente per uno scrittore che è vissuto diversi anni a Roma, il legame con la città è inesistente, salvo i nomi di strade e palazzi del centro, come presi direttamente dallo stradario. Il suo giornale immaginario è incapsulato in una bolla opaca e il fatto che la sede sia a Roma, e non altrove, è puramente casuale.»