In «Time out of mind» il regista vuole dare al racconto un alone di verità. Il protagonista si aggira tra la folla filmato da una cinepresa nascosta.
«Stazione Termini» è un’opera sincera e diretta. Nessuna troupe o sceneggiatura ma solo vita vera. Per lasciare i protagonisti liberi di raccontarsi e di mostrare la loro condizione.
di Gaetano ValliniChe li si chiami homelesso barboni, che si aggirino per le strade di New York o in quelle di Roma, alla Grand Central Station o alla Stazione Termini, non fa differenza. Sono uguali qui come dappertutto: sono degli invisibili. Una realtà durissima, oggetto di due pellicole presentate al Festival internazionale del cinema di Roma: un film, Time out of mind, diretto da Oren Moverman e interpretato da un intenso Richard Gere nei panni di un senza fissa dimora, e un documentario, Stazione Termini, firmato da Bartolomeo Pampaloni che racconta in presa diretta la vita di alcuni dei tanti clochard che «abitano» il principale scalo ferroviario della capitale. Dunque, un’opera di fantasia e un docufilm per raccontare, entrambi con pregi e difetti, una medesima condizione di disagio sociale, di emarginazione e di degrado umano. Time out of mind è stato per Gere probabilmente il film più impegnativo della carriera. Calarsi nei panni di George Hammond, da anni nel baratro di una vita senza più riferimenti e ora in strada a condividere l’esistenza difficile dei circa sessantamila barboni che si aggirano nelle vie della «grande mela», non è stato semplice. Un film girato in appena ventuno giorni, giocato più sulle emozioni e sulle situazioni che sulle parole. Il regista voleva dare al racconto un alone di verità, per questo ha chiesto più volte al protagonista di mischiarsi alla folla della metropoli senza che la macchina da presa fosse visibile. Voleva cioè raccogliere le reazioni della gente quando incontra un barbone. Reazioni sostanzialmente di indifferenza: chi vive questa condizione viene quasi annullato dal contesto in cui si muove, di fatto non esiste; in conferenza stampa Gere ha detto che nessuno lo riconosciuto. Un aspetto questo messo in evidenza dalla scelta di amplificare ai limiti del sopportabile i suoni della città - il vociare della gente in strada e nei bar, il rumore del traffico e dei cantieri, lo squillare dei cellulari - che sembrano sovrastare e schiacciare il protagonista, quasi impedendogli di agire, persino di pensare. Così come dall’averlo spesso ripreso con la cinepresa celata dietro un portone, una grata o una vetrina, come ci fosse un filtro, quasi a mantenere quella distanza di sicurezza che la società vorrebbe fosse posta a propria salvaguardia da chi è indesiderato. «Perché forse nel barbone – ha spiegato Gere - le persone vedono il fallimento e hanno paura di poter essere contagiati, per questo non lo guardano né lo sfiorano». Quello offerto da Moverman, attraverso atmosfere rarefatte e un tono basso tutt’altro che di maniera, è uno spaccato di umanità dolente, affidata alle sole cure dei centri statali di accoglienza notturni, come il Bellevue Hospital, in cui trova rifugio il nostro. Luoghi protetti, certo, ma con controlli continui da parte di poliziotti e di regole certo non facili per chi vive in strada. E George, che non riesce ad accettare la sua triste condizione di senzatetto, vive con disagio queste imposizioni, scoprendo sulla sua pelle l’impossibilità di poter cominciare a ricostruirsi una vita se non si ha nulla, nemmeno un documento che attesti la propria esistenza. Scontrandosi così anche con l’assurdità della burocrazia. La sceneggiatura, non esente da pecche nell’assoluta orizzontalità di un racconto, un po’ ripetitivo e ridondante, si limita a mostrare perché non narra una storia e non svela quasi niente del passato del protagonista né del suo rapporto con l’unica figlia, che non vuole più avere a che fare con lui e che tuttavia alla fine cede a un insperato ricongiungimento; come a dire che la salvezza sta solo negli affetti. Malgrado i limiti, con il marcato realismo che non pare cercare il plauso del pubblico, il film ha il pregio di costringere quest’ultimo a osservare qualcosa che non vorrebbe vedere, offrendo il quadro drammatico della condizione dei senzatetto, della loro solitudine, delle loro angosce, della loro quotidiana lotta per la sopravvivenza e per ritrovare un posto nel mondo, un senso di appartenenza.