È deciso, si va. Superata una periferia caotica e sgraziata, ma con tanto di centri commerciali e un multiplex, fermo l'auto vicino a Porta Valle.
Le mura sono belle, imponenti, peccato per le auto parcheggiate proprio a ridosso degli antichi mattoni. Le costeggiamo per una cinquantina di metri, fino al Torrione, sotto al quale, sedute su una panchina, due africane chiacchierano mentre si puliscono le dita dei piedi con pigra noncuranza.
Che sarà mai? A Milano ci siamo abituati da tempi immemori, ma qui non ce l’aspettavamo.
In effetti, Jesi conta circa quarantamila abitanti, è quindi normale che ci sia una certa multietnicità.
Entriamo nella città vecchia percorrendo una via stretta e ripidissima, con case antiche costruite in parte direttamente sulle mura. Sono ricoperte da rampicanti e fiori e, se non fosse per i bidoni della raccolta dei rifiuti disseminati in ogni anfratto, parrebbe di essere fuori dal tempo.
La via termina in piazza Federico II in cui, la tradizione, vorrebbe che, il 26 dicembre 1194, Costanza d’Altavilla abbia dato alla luce il futuro imperatore svevo da cui la piazza prende il nome.
È piuttosto ampia e, soprattutto, affollata di persone che sciamano con passo veloce in ogni direzione. Va bene che Jesi è stata definita (sempre secondo il Touring) la Milano delle Marche, ma la trovo quasi isterica, con le auto che sbucano da mille viuzze dalle quali ti viene da pensare che passerebbe a stento un carretto trainato da un mulo, vigili che vanno e vengono, mezzi pubblici in miniatura che incrociano ovunque, e la gente che, a dispetto della multietnicità che mi sembra piuttosto consolidata, ci guarda come si osserva con diffidenza e anche un po’ di spocchia un alieno appena sbarcato dalla sua astronave.
Gli edifici sono i tipici palazzi sette-ottocenteschi, alcuni in buono stato, altri chiaramente degradati. Spicca come un pugno in faccia la sede di una banca di stampo modernista anni ‘80, incastrata, come un dente finto, fra due palazzi d’epoca. Probabilmente il frutto di una concessione edilizia non troppo limpida o, quanto meno, avventata.
Ci incamminiamo lungo corso Matteotti: l’asse centrale di tutta la città vecchia che l’attraversa da un lato all’altro. È quello che per qualunque città rappresenta il salotto buono, la via che raccoglie il meglio, il polo anche culturale, fatto di negozi di prestigio, ma anche di antichi caffè, di librerie e compagnia bella.
Percorrendolo rimaniamo sbigottiti. È un susseguirsi di vetrine come se ne vedono nelle periferie di qualunque grande città: intimo e camice, abbigliamento di scarsa qualità, minuscoli bar inesorabilmente e squallidamente ristrutturati in stile moderno, palazzi che più che d’epoca, appaiono vecchi e abbandonati a sé stessi.
Gli interni di negozi e bar sono bui, senza una luce, tanto che non capiamo se siano aperti o chiusi e sono arredati in qualche modo, a volte con ciò che sembrano avanzi degli anni ‘70 o ‘80. Tanti danno l'impressione di essere abbandonati, con le vetrine nascoste da carta da pacco. La gente che incrociamo è vestita in un modo che, almeno per me, sembra quanto mai bizzarro: un misto di shorts e sandali col tacco e ariosi vestiti da signore che si apprestano a prendere il te nel giardino della loro tenuta del Devonshire. Ma forse sono loro a trovarci bizzarri, perché continuano a squadrarci di sottecchi con insistenza.
Vetrine di fotografi da matrimonio, si alternano a quelle con esposti cappelli di paglia da dieci euro, ad altre ancora che vendono camice e vestiti fuori moda da almeno dieci anni.
Mi fermo a osservare una vecchia che deve aver superato gli ottanta da un bel pezzo, curva come un ulivo centenario, ma che indossa dei blue jeans decorati con un enorme fiore di strass che parte dalla caviglia e arriva fin sopra la coscia. Sta trafficando con due mazzi di chiavi, cercando di aprire la porta di alluminio di un negozio forse di antichità. Continua a provare e riprovare, visibilmente incazzata, ma la porta sembra non volersi aprire. Ogni tanto tenta una debole spallata e mi pare quasi di sentire lo scricchiolio delle vecchie ossa, ma senza risultato. Non ho la forza di andarmene, ormai sono ipnotizzato, mentre lei continua a infilare diverse chiavi mormorando fra sé e sé quelle che, mi piace immaginare, siano bestemmie. Poi prova ad abbassare la maniglia: era già aperto!
Un’altra vecchia è seduta su un seggiolino pieghevole contro un muro, ha le unghie dei piedi che spuntano da vecchi sandali lunghe e sporche, come di chi è abituato ad andare per campi. Davanti a sé, appoggiati su un vecchio quotidiano, ci sono una manciata di fichi striminziti e acerbi e qualche fiore di campo mezzo appassito. Credo sia sua intenzione venderli, ma è più una scusa per chiedere la carità senza avere l’aria di farlo.
Più avanti sentiamo dei potenti gorgheggi, come nelle comiche, quando la grassona di turno si esercita nel bel canto. Si spandono lungo la via senza che nessuno ci faccia caso, poi, una ragazza che batte un tamburello contro la coscia nuda al ritmo dei suoi passi, si infila nel portone della casa da cui provengono i gorgheggi. Ora si è unita anche una voce maschile che intona varie scale. Fuori dal portone una targa chiarisce il mistero: si tratta di una scuola di musica che, però, dall’esterno pareva più una vecchia fabbrica abbandonata.
Cerchiamo la pinacoteca in cui sono custodite alcune opere di Lorenzo Lotto; un cartello ci spedisce chissà dove, ma di certo nella direzione sbagliata. Poco male, perché non riaprirà prima di dicembre.
Quella che, stando al cartello davanti al quale sta cercando di parcheggiare un vecchio invalido su una mercedes cabrio gialla, dovrebbe essere la chiesa più antica di Jesi, è inesorabilmente chiusa.
Vedo un Bancomat: ho bisogno di prelevare perché ho dimenticato i soldi a casa. “Impossibile stabilire la connessione con la sua banca”. Ne trovo un altro. Funziona, ma i tagli prelevabili sono quanto di più illogico si possa immaginare: 40, 70, 120, 180 euro. Ma quale mente malata può aver escogitato una sequenza che sembra quella di un Fibonacci impazzito?
Va beh, compriamo il giornale.
“Mi dà Repubblica, per favore?.
“Esaurita”.
Ma che cazzo di paese è questo? Un po’ ridiamo pensando che gli jesini siano tutti un po’ soffiati in testa. Tutta questa frenesia, questi vestiti strani, i negozi che vendono di tutto come in una casbah da fine del mondo, fuorché qualcosa che sia anche lontanamente interessante, quegli altri che urlano scale musicali dalle finestre aperte, i cartelli che ti mandano dalla parte opposta a ciò che indicano...
Ma un po’ ci incazziamo pure, perché questa sembra una città senz’anima, in cui i palazzi d’epoca sono stati violentati da interventi che definire criminali è ancora poco. Altre case sembrano semplicemente dimenticate, abbandonate al loro destino di degrado e abbandono. È una città che, rispetto a quanto abbiamo visto fino ad ora, risplende di una bruttezza perversa, come un dente cariato in una bocca sana.
Ce ne andiamo delusi e leggermente intontiti che non è ancora mezzogiorno, cercando un posto dove mangiare che sia il più lontano possibile. Ma prima mi fermo a fare benzina. L’addetto alla pompa ha passato i settanta, ha un cappellino da baseball consunto e sembra di poche parole. Per dare il resto al cliente precedente scompare per cinque minuti buoni, poi quando riappare chiede semplicemente:
“Benzina?”.
“Sì, benzina verde”. Dico io.
Lui si infila un guantone bordeaux di gomma pesante che gli arriva fino al gomito e stacca la pistola dalla pompa. Mi guarda e mi fa: “Benzina?”.
“Benzina verde”. Gli ripeto, ma questa volta sto attento a quello che fa.
Lo pago, e lui, di nascosto, controlla la mia banconota da cinquanta euro, quella da venti invece non se la pensa nemmeno e la infila nel marsupio che porta allacciato in vita.
Io, tanto per darmi un tono, guardo in controluce la filigrana di quella da dieci che mi ha dato di resto e me ne vado.
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