Un giorno degli inizi di Dicembre 2008, dietro consiglio di un collega col quale credo di condividere un certo gusto per il buon cinema, decisi di iscrivermi ad un corso: "Il mestiere del critico dal cinema ai nuovi media". Per i sei mesi successivi, ho trascorso tutte le settimane in attesa di quell’appuntamento del Venerdì sera, che mi vedeva uscire di soppiatto dall’ufficio ed imboccare la strada per la metropolitana. Fermata Porta Nuova, e poi giù per la meravigliosa, e pedonale, via Lagrange, a Torino. Ogni Venerdì, stesso itinerario, per raggiungere l’incantevole Galleria Subalpina di piazza Castello, sede dell’AIACE.
Il corso prevedeva la preparazione di un lavoro finale, il progetto di un intervento critico.
La passione per il cinema e per la musica mi ha portato a fondere e confondere le due arti nel mio progetto di fine corso, che si prefiggeva di raccontare la musica nel cinema, e di analizzarla nel suo divenire protagonista della scena. Il mio interesse era quindi rivolto ad approfondire il connubio tra i due linguaggi, musicale e cinematografico. A questo scopo, ho voluto scegliere, come modello ed esempio, un universo musicale che ha sempre esercitato su di me un fascino magnetico, quello caratteristico dei popoli in continuo movimento, capaci di vivere profondamente le proprie tradizioni in musica e allo stesso tempo di rielaborarne l’essenza, cullati dagli spostamenti spaziali e temporali. La musica fa tappa, con gli uomini, nei luoghi visitati, ed incontrando nuove culture e tradizioni, muta, si trasforma, accoglie l’intuizione del diverso e si contamina, dando origine ad una metamorfosi che arricchisce se stessa ed il suo ospite. Poi riparte, e ricomincia la trasformazione, fino a far perdere di vista, quasi completamente, le coordinate dello spazio e del tempo. Ed è così che la musica dei gitani, partita in tempi antichissimi dalla lontana India, si colora delle sonorità balcaniche e rom nell’Europa dell’est, incorpora il temperamento iberico tramutandosi in flamenco, e regala i natali, in terra franco-belga, ad un genio assoluto di nome Django Reinhard, padre del jazz Manouche.
Con gli zingari, in moto perenne e quasi sempre volontario, anche gli ebrei, sebbene costretti alla diaspora. Ed è stato proprio mentre progettavo il mio intervento critico “La musica delle diaspore va in scena” che ho avuto l’occasione di rivivere e riscoprire quello che considero uno dei momenti cinematografici più belli e commoventi dedicati all’incontro musicale tra due culture, quella gitana e quella ebraica, così intimamente diverse, ma che un destino comune ha reso spesso molto somiglianti. Il film da cui ho tratto l’intera scena di un duello musicale tra le due comunità, combattuto a suon di clarinetti e violini, balli e canti yiddish e ottoni tzigani, colorate danze zingare e il più ordinato ma non meno corpulento entusiasmo ebraico, che trova la sua naturale risoluzione in una delirante festa comunitaria, in cui cedono all’estasi del ballo anche due pseudo guardie naziste, è “Train de vie – Un treno per vivere”, grande successo di Radu Mihaileanu.
Il regista romeno, di formazione cinematografica francese, ha sempre testimoniato, attraverso le sue opere, una enorme generosità nei confronti della musica, che spesso è musica della sua gente e della sua terra. Con “Train de vie” sembra quasi voler celebrare la sua stessa vita, quella di un ebreo di Bucarest, figlio di comunisti, il cui cognome avrebbe evocato l’incanto delle atmosfere yiddish, se non fosse stato modificato, dopo il disastro nazista, in uno dal suono decisamente più romeno. E così, l’incontro-scontro tra le due culture e la mutua trasformazione vivono e prendono corpo nei suoi film, allo stesso modo in cui l’anima ebrea e quella tzigana si plasmano e si modellano a vicenda nell’uomo Mihaileanu, dando luogo ad una convivenza vivace e cinematograficamente prolifica.
Con il suo ultimo film “Il concerto”, Mihaileanu concede a se stesso ed ai suoi spettatori il rapimento sublime della musica classica. Andreï Filipov, un direttore d’orchestra moscovita caduto in disgrazia durante il regime di Breznev per aver difeso alcuni suoi orchestrali ebrei, trascorre gli ultimi trent’anni della sua vita facendo le pulizie al Bolshoi di Mosca. Fino a quando, un giorno, l’intercettazione involontaria di un fax gli cambia l’esistenza: un teatro parigino, lo Chatelet, invita l’orchestra del Bolshoi a tenere un concerto. Quel “Concerto per violino e orchestra” di Tchaikovsky, rimasto sospeso nell’anima del direttore e da lui stesso interrotto per combattere al fianco dei suoi amici ebrei, sognato per decenni, rinasce nella mente e nel cuore febbricitanti di Andreï. Così comincia una grottesca avventura che vede la vecchia compagnia di orchestrali riunirsi dopo trent’anni, e spacciarsi per la grande orchestra del Bolshoi.
La creatività favolistica ed il rigore del classico si mescolano dando luogo ad una bizzarra alchimia, che pare essere dominata dai numeri. Mihaileanu sembra quasi voler affidare alla matematica il ruolo di giudice supremo, di genitrice artistica della musica che, proprio come fa una madre, cerca di imporre le sue regole all’estro filiale. Si conta durante tutto il film: i partecipanti alle manifestazioni politiche, ai matrimoni kitsch dei nuovi borghesi russi, alle nostalgiche riunioni di partito. E poi naturalmente si contano gli orchestrali, i soldi, i compensi. I numeri, però, sono quasi sempre raggiunti a stento, e si fa fatica, si lotta per cercare di rimanere agganciati a quell’ideale matematico di perfezione, sino a sacrificare l’austerità dei comportamenti, in nome di quel principio machiavellico che esalta i fini e giustifica i mezzi. Il numero diventa ossessione ed oppressione, e la svolta giunge con un fragoroso e liberatorio “non rompere i coglioni con i numeri!!!”.
Raccolti tutti i membri dell’orchestra, alcuni dei quali recuperati nei relativi campi rom d’appartenenza - Mihaileanu cita se stesso in “Train de vie” quando ripropone la vita nei campi, i balli e i canti attorno alle roulotte illuminate dalla luce fioca dei falò, gli abiti delle donne lucenti di folklore gitano, e i denti d’oro degli uomini dal violino manouche - comincia il divertente viaggio verso Parigi. Il regista si diletta non poco con i luoghi comuni costruiti dal mondo occidentale sui suoi personaggi, e diverte lo spettatore giocando con il “temperamento slavo”, con la maniacale propensione ebraica verso il commercio ed il denaro, con la spiccata tendenza dei nomadi alla malavita ed alla dispersione (seppur nella città romantica, con tanto di comprensione!), con la supremazia cinese nel mondo dei cellulari, con i miti del comunismo russo ridotti a piccole matrioske, e col gas a cui l’occidente non può permettersi di rinunciare, anche a costo di sopportare le innocue minacce di un fastidioso ed egocentrico magnate russo. Infine, non si può non notare lo sgambetto birichino che viene rivolto alla popolazione colta francese, quella che frequenta i teatri e le grandi orchestre internazionali, che, nel suo essere bacchettona, crede davvero di essere davanti alla (improbabile) grande orchestra del Bolshoi.
Controparte dell’inverosimile e del grottesco è la componente melodrammatica della storia, la cui intensità viene spesso sottolineata dall’uso del bianco e nero sulle immagini sfocate della memoria di Andreï. La follia di quell’impresa, il profondo affetto per la giovane violinista francese, l’amore smisurato per la musica, il riscatto di Andreï direttore e uomo, e con lui quello dei musicisti ghettizzati trent’anni prima, il ricordo della dolorosa deportazione e della triste fine dell’amica violinista di un tempo, confluiscono vorticosamente nell’agognata esecuzione del “Concerto per violino e orchestra” di Tchaikovsky. Tutti, russi, zingari ed ebrei sono chiamati a condividere la stessa magia e si ritrovano uniti dal potere travolgente della musica. Infatti, la musica si impossessa inesorabilmente della scena, spazzando via qualsiasi altro elemento della storia, ridotto a semplice dettaglio. Il pubblico in sala si sostituisce inconsapevolmente alla platea del teatro parigino, e vive il crescendo di emozioni come se stesse davvero assistendo a quel concerto. Cadono tutte le barriere tra lo spettatore ed il film, e campeggia una sola certezza, sapientemente guidata dalle espressive mani del direttore, quella della musica di Tchaikovsky nelle orecchie e nei cuori di chi è presente, con l’impulso strozzato di applaudire, alla fine.
A vincere (e convincere) sono la bacchetta spezzata di Andreï portatrice di dolorosi ricordi, la condivisione estatica interna alla pseudo orchestra, le voluttuose emozioni suscitate nello spettatore, tutti elementi di un film che non ha generi, o che forse li contiene tutti quanti. L’incantesimo di quando il cinema incontra la musica.