"Gli Orti di tutto il Mondo"

Da Risveglioedizioni
«Ho viaggiato in Italia e in Europa per visitare gli orti comunitari – scrive Mariella Bussolati, autrice di Orto diffuso (orme Edizioni) -, fotografarli, fare video e interviste per capire come mai gli abitanti delle città europee stessero animando un movimento sempre più grande e sempre più connesso, che rivendica gli spazi abbandonati non per fare parchi ma per nutrire la terra, i quartieri, la gente». Mariella ha scoperto che sono in molti a pensare che un cavolfiore possa essere più potente di un pugno chiuso, fragole e insalate possono diventare il simbolo di una lotta contro la finanza planetaria o gli interessi degli speculatori edilizi. «Sta accadendo proprio ora, nei vari insediamenti di Occupy, da New York a Toronto a Roma». Di Mariella Bussolati
La mia passione per gli orti ha origini antiche. Quando ero piccola trascorrevo molto tempo in campagna, nella casa del nonno. Avevamo due spazi verdi: l’orto vero e proprio, e un piccolo giardino dove tra rose, mughetti e bossi trovavano spazio dei grossi vasi di cotto che in estate scoppiavano letteralmente di basilico. Una delle cose che mi piaceva di più era andarci verso mezzogiorno, quando il sole è più alto, fa caldo e tutto diventa più intenso, ad annusare il profumo fortissimo. L’orto aveva una terra grassa, morbida, argillosa. È lì che ho imparato a prenderla in mano, a riconoscerne la consistenza, a misurare con l’occhio la dimensione dei granuli, a capire se è fertile, oppure sciolta e ricca di sabbia. A quel tempo, noi bambine credevamo ancora di poter tagliare le piante con le forbici per ripiantarle altrove, convinte che sarebbero cresciute anche senza radici. Una delle nostre occupazioni principali era costruire enormi case con le cassette delle mele coltivate dal nonno, e creare davanti all’entrata un giardino per rendere la nuova abitazione un luogo piacevole e accogliente. Dopo il diploma ho studiato agraria all’università. Ho  imparato a fare talee e a seminare, riempivo i balconi di verde e avevo l’orto in campagna. Ma non bastava. Infatti mi chiedevo: se l’orto è uno spazio relativamente piccolo, confinato, raccolto e può essere realizzato praticamente in ogni luogo – sul balcone (o terrazzo), nel giardino condominiale e persino in un parco pubblico o in un’aiuola dimenticata – perché non ce ne sono ovunque? Un orto può nascere sotto casa, o in casa, anche se si vive nel quartiere più grigio. E visto che un orto può essere percepito come “una vita che nasce in un contesto cementificato che nega la vita”, la sua cura, l’amore e la passione che gli dedichiamo possono stimolare in noi la voglia di combattere per ottenere tutti i diritti che ci vengono negati. L’orto di quando ero bambina mi ha fatto da guida, e ho scoperto un mondo parallelo, fatto di vegetali ma anche di persone, tradizioni, volgia di fare. In questo viaggio nell’orto non fatto solo di pomodori e basilico, ho imparato che ci si poteva dimenticare degli orti circoscritti dalle reti da letto arrugginite, delle taniche azzurre e maleodoranti contenenti miscele inquinanti, delle vanghe pesanti e della dura fatica, perché gli orti sono in realtà dei giardini.Persone comuni e nonIn questo mio viaggio negli orti di tutto il mondo ho incontrato anziani, ma anche punk vegetali, cittadini s-piantati, squatter organici, green warriors, famiglie naturali, pentiti dei centri commerciali, piccoli economisti domestici, botanici critici e contadini del grumo di terra. Ho visto gli orti comunali e quelli abusivi che, nonostante non siano di proprietà, rappresentano uno spazio di privatizzazione spinta. Ho viaggiato in Italia e in Europa per visitare gli orti comunitari, fotografarli, fare video e interviste per capire come mai gli abitanti delle città europee stessero animando un movimento sempre più grande e sempre più connesso, che rivendica gli spazi abbandonati non per fare parchi ma per nutrire la terra, i quartieri, la gente. Ho scoperto che coltivando rose e broccoletti si può fare in modo che gli abitanti di un quartiere convivano con ragazzini africani che spacciano droga (come accade nel giardino comunitario Falbala, a Parigi); e anche che sono in molti a pensare che un cavolfiore possa essere più potente di un pugno chiuso. Fragole e insalate possono diventare il simbolo di una lotta contro la finanza planetaria o gli interessi degli speculatori edilizi. Sta accadendo proprio ora, nei vari insediamenti di Occupy, da New York a Toronto a Roma. Negli orti, insomma, non crescono solo rape e fagiolini, ma anche autonomia economica e alimentare, cultura e natura. Gli orti permettono di rintracciare le proprie radici e di mettere alla prova le proprie abilità, e di sentirsi parte di una rete più grande. Tornare alla terra da cittadini, o comunque non da contadini produttori, è la propria parte biologica e culturale, rifiutando il modello del consumatore passivo, incapace e artefatto, che è stato imposto negli ultimi trent’anni.Cucine a basso impatto, Gas, filiera cortaQuesta nuova sensibilità si sta diffondendo rapidamente e in tutte le fasce di reddito, sempre più colpite dalla crisi e dal pensiero che il modello di società capitalista a cui siamo sottoposti possa non funzionare. Non a caso a desiderare l’orto sono tantissimi giovani. In Italia le persone che muovono intorno agli orti sono spesso anche alla ricerca di una cultura alimentare che abbia un approccio diverso con l’economia del cibo: sperimentano la cucina a basso impatto, analizzano ricette e metodi di preparazione, provenienze e percorsi degli ingredienti, il loro chilometraggio, i loro costi. Hanno legami con i gruppi di acquisto e le reti di distribuzione alternativa. In molti di noi esiste il desiderio di un orto diffuso, che trovi spazio nelle idee e tra le case, che a volte riesca a essere evidente e altre meno. Ma di cui tutti, come del giardino dell’Eden, sentono la mancanza. Questo libro nasce appunto per far crescere l’orto diffuso ovunque. Non stupitevi se qua e là si parlerà anche di attivismo politico e di proposte radicali. Il fatto è che il giardinaggio è diventato radicale, ed è in fin dei conti un’azione di resistenza contro modelli di paesaggio e consumo che tendono a preferire l’inorganico e il commerciale alla vita e ai contenuti da essa espressi.Fonte: http://comune-info.net

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