Gli orti producono cibo ma anche benessere

Creato il 25 gennaio 2016 da Antoniobruno5
Gli orti producono cibo ma anche benessere di Costantina Righetto Il tema di cui mi sono occupata durante il dottorato mi ha permesso di indagare a fondo su quali fossero le possibilità reali di utilizzo dei benefici del rapporto uomo-pianta per migliorare la vita di tutti noi e in particolare su come utilizzare questa risorsa per migliorare la vita di persone in difficoltà. L’idea di affrontare questo tema è stata del mio tutor, Prof. Giorgio Prosdocimi Gianquinto: insegnando a costruire orti in zone del mondo povere di risorse, si è reso conto che, dal Brasile a Berlino, dal Perù a Bologna, gli orti producevano cibo ma anche benessere, e che tra le persone impegnate nei progetti nascevano amicizie, solidarietà e un nuovo senso della vita: l’orto diventava un luogo di aggregazione, socializzazione, condivisione, arricchimento culturale, accettazione del proprio stato e permetteva di ampliare i propri orizzonti di vita. Le persone stavano meglio, ritrovavano entusiasmo, si nutrivano meglio, i rapporti sociali miglioravano e le mamme facevano un’attività che poteva coinvolgere anche i bambini. In questi tre anni ho cercato di avvicinarmi a tutto quello che avesse a che fare con l’ortoterapia in Italia e mi sono imbattuta in tre diversi ambiti: agricoltura, sanità e sociale. Ho visitato aziende agricole in cui sono attive varie forme di agricoltura sociale; ho seguito la formazione di agricoltori che vorrebbero aprirsi a queste attività; ho visitato comunità terapeutiche e carceri in cui si utilizza l’orticoltura come strumento riabilitativo; ho partecipato alla creazione di un orto in un centro di accoglienza di minori non accompagnati a Catania; ho collaborato alla formazione di operatori della comunità di accoglienza L’Arca a Bologna; ho visitato la Scuola Steineriana di Conegliano dove l’orto è uno strumento di apprendimento. Alla luce di queste esperienze mi sento di affermare che esistono diverse ortoterapie in cui, cambiando gli utenti, cambiano i luoghi e le modalità di intervento ma la pianta resta l’elemento centrale del processo che permette alla persona di percepire le strettissime relazioni che ci legano agli altri viventi e al mondo che ci circonda. E il giardino terapeutico diventa un’opportunità per riscoprire e valorizzare se stessi attraverso l’attività fisica, il rilassamento della mente e l’esperienza di nuove emozioni: l’impegno per prendersi cura delle piante diventa impegno per prendersi cura di noi. Durante il primo anno di dottorato ho lavorato in un orto terapeutico per persone svantaggiate e malati psichici ad Ariano Polesine (RO), dove ho partecipato alle attività quotidiane e alla progettazione mensile delle attività con l’equipe sanitaria. Il secondo e il terzo anno ho portato avanti la mia ricerca in un ospedale di neuroriabilitazione a Venezia Alberoni dove, mentre allestivo le prime attività di orticoltura e giardinaggio con un gruppo di pazienti dell’ospedale e componenti dello staff, nella primavera del 2013 ho assistito ai passaggi che hanno portato alla realizzazione di un giardino terapeutico all’interno dell’ospedale. Sono entrata in stretto contatto con le diverse figure professionali e ho cercato di capire come la loro attività potesse intersecarsi con il giardino. Abbiamo tutti insieme cercato strategie per il coinvolgimento di pazienti, familiari e staff, convinti che il giardino potesse dare beneficio a tutti indistintamente attraverso il paesaggio che ci circonda (Settis, 2010), il cibo di qualità (Petrini, 2005) e la possibilità di interagire con le piante.
Io per prima dovevo passare da una semplice sensazione di stare bene in un giardino, cosa non difficile da immaginare, alla consapevolezza profonda di cosa ci fosse dietro a questa sensazione e a rendere possibile il suo utilizzo per rendere più facile, piacevole, soddisfacente ed impegnata la giornata di persone che hanno dei bisogni speciali(riferiti a situazioni di difficoltà tali da far prefigurare un intervento mirato, personalizzato). E da qui sono partita.