James Ensor tra le correnti simboliste di fine ottocento racconta in modo originale la sofferenza dell’uomo, gli incubi veicolati attraverso maschere grottesche. La sua folla, la sua gente possiede facce e corpi che noi non possiamo vedere, l’incubo della morte oggettivata nei teschi, negli scheletri che ci circondano. Una massa ripugnante e deforme che ricorda i temi di contestazione della società di Daumier, Munch, e poi di Grosz. Le maschere, i teschi sono utilizzati da Ensor come in un preciso rituale, per svelare la decomposizione della realtà, sociale e individuale, per lasciar volare libero tra di noi l’odore pungente della morte, accorgercene, imparare a riconoscerlo tra il bombardamento di stimoli superflui e devianti per i nostri sensi. Ensor dipinge una massa abnorme, priva di personalità, un vuoto mostruoso liberato dalle sue linee e dai suoi cromatismi. Ensor ci osserva, saremo noi i prossimi soggetti, le prossime maschere, i prossimi scheletri disgustosi.
Ensor rappresenta una figura anomala dell’arte moderna, precursore dell’espressionismo e non solo. Gli scheletri dominano le sue visioni, inquietanti espressioni della personale ossessione della morte che riesce a far migrare verso il fuori, colpendoci mentre osserviamo le sue opere. Ricordandoci, sezionando l’inconscio collettivo con le sue visionarie interpretazioni della realtà. Ensor evoca una orribile zona intermedia dell’esistenza, dipinta con l’alternanza di colori decomposti e puliti che creano una potente ansia, quella di vivere che tutti noi cerchiamo di contenere, in qualche modo. Quella zona di mezzo non è la realtà, tantomeno una sua semplice trasfigurazione, è il diario di uno spettro che ci porta per mano nella sua casa di ossessioni. Dove scopriremo di essere già stati.
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