Gli scontri del 14 dicembre a Roma chiudono il decennio dell’«opzione nonviolenta»

Creato il 18 dicembre 2010 da Bracebracebrace

Cambio di passo

«Poteva essere un’altra Piazza Alimonda». Come ha fatto giustamente notare Sandro Ruotolo nel suo servizio sugli scontri del 14 dicembre a Roma, la scena dei cellulari della Guardia di Finanza imbottigliati e assaltati da centinaia di manifestanti in via del Corso non può non rimandare a un’altra immagine.

14 dicembre 2010, via del Corso

Genova, 20 luglio 2001: un ragazzo con l’estintore alzato sopra la testa, che da quel giorno tutta Italia chiamerà tristemente per nome, sta per essere colpito da un proiettile sparato da un Defender dei carabinieri preso di mira dalla gente in piazza Alimonda.

Dalla morte di Carlo Giuliani in Italia le manifestazioni non hanno più cercato il contatto con le forze dell’ordine; scudi in plexiglas, tute bianche, caschi e molotov sono scomparsi dall’equipaggiamento dei cortei; i rari tentativi di forzare uno sbarramento di polizia si sono svolti con le mani libere alzate; la politica e i media hanno fatto a gara per poter dire, di volta in volta: «È stata una manifestazione pacifica», «I pochi violenti hanno infangato una grande manifestazione pacifica», «Solidarietà con le forze dell’ordine».

Il movimento di allora, e i partiti che lo sostenevano e lo rincorrevano, si sono trovati di fronte a un bivio: rispondere agli omicidi e alle violenze del governo o scegliere un’altra strada? Si scelse l’opzione nonviolenta, Rifondazione Comunista e le realtà di movimento la difesero per circa un decennio. Ma ora quei partiti non ci sono più, e quanti hanno riso all’uscita della sinistra dal Parlamento ora dovrebbero riflettere: senza una rappresentanza politica, la nonviolenza non resisterà ancora a lungo.

Roma, 14 dicembre 2010 (foto LaPresse)

Quello del 14 dicembre è stato il primo grande corteo in Italia in cui gli scontri di piazza non solo non sono stati accidentali, o causati da provocazioni della polizia, ma sono stati rivendicati e condivisi dalla maggioranza dei manifestanti. Ebbenesì, si può tirare un sanpietrino, si può incendiare una camionetta, e se si incontrano finanzieri o poliziotti che cercano di sbarrare la strada del corteo, li si affronta a bastonate. I lacrimogeni sparati dagli agenti non sono che una risposta ai potenti petardi lanciati in continuazione per stordire la polizia.

Sono avvenimenti inauditi, nuovi, che chiudono una stagione e ne aprono un’altra, dagli esiti imprevedibili. L’assenza di rappresentanza politica, sindacale, sociale, sposta l’orizzonte delle persone (gli studenti e i ricercatori, i lavoratori sfruttati dalla precarietà, i cittadini dell’Aquila senza la loro città, i dipendenti pubblici tagliati dalla finanziaria, i cittadini di Napoli e sommersi dall’immondizia e dai veleni) indietro di duecento anni, alle sommosse popolari di inizio ’800. Non si tratta di una rivolta né di una rivoluzione, perché non c’è una forza politica in grado di prendere il potere.

All’abbrutimento della classe politica corrotta e ingorda, sorda alle urgenze e al malessere del paese, risponde la violenza della piazza. Per questo, al di là della pietà umana per il manifestante ferito e picchiato e per il finanziere raggomitolato a terra che si ripara dai colpi, non c’è proprio nulla da condannare in quella violenza. Non resta che prenderne atto, perché questo è il punto cui siamo arrivati dopo gli ultimi dieci anni di governo delle destre in Italia. Le forze in campo si esprimeranno così, e questa è stata solo l’anteprima.

Andrea Tornago


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