Articolo di Sergio Rizzo pubblicato sul Corriere della Sera il 23 novembre 2013
Ad accorgersi della loro
esistenza non sono i 642 mila italiani con meno di 25 anni che stanno
disperatamente cercando un lavoro. Né quel milione e 706 mila disoccupati di
lungo periodo, cioè a spasso da almeno un anno, censiti dall’Istat. Che i
centri per l’impiego pubblici siano vivi e vegeti ne hanno contezza soprattutto
i loro 9.865 dipendenti nonché il Tesoro, che secondo un rapporto dell’ufficio
studi Confartigianato ogni anno tira fuori in media per mantenere quelle
strutture la bellezza di 464 milioni di euro: somma per tre quarti destinata
agli stipendi. Ovvero una cifra, per capirci, nettamente superiore al gettito
dell’Imu sui terreni agricoli che sta facendo ammattire il governo Letta, alla
disperata ricerca delle coperture per eliminare quella tassa. Qualcuno potrà
sbandierare i dati Eurostat, per i quali la nostra spesa pubblica per i servizi
sul mercato del lavoro tocca appena lo 0,03 per cento del Prodotto interno
lordo, meno di un decimo rispetto a Germania e Regno Unito, un ottavo della
Francia e un terzo della Spagna. Il problema, però, sono i risultati.
E i numeri, come quasi sempre, rappresentano una sentenza inappellabile. Negli
ultimi sette anni hanno trovato occupazione attraverso i centri per l’impiego
mediamente non più di 35.183 persone ogni dodici mesi. Questo significa che
ciascun posto di lavoro è costato oltre 13 mila euro. L’equivalente di
un’annualità del reddito di cittadinanza proposto dal
Movimento 5 Stelle. Con
tanto di tredicesima. Tanto basterebbe per decretare un’immediata e radicale
riforma. Vedremo ora quella cui sta lavorando il ministro Enrico Giovannini,
già sapendo che è destinata a rincorrere il mostro galoppante della
disoccupazione. L’Ocse ha appena diffuso dati raccapriccianti sullo stato del
nostro mercato del lavoro. A settembre i giovani italiani di età compresa fra
15 e 24 anni in cerca di occupazione hanno raggiunto la spaventosa quota del 40,4
per cento, con un aumento di oltre 5 punti e mezzo rispetto all’anno
precedente. E quel che è più grave, il tasso dei giovani senza lavoro risulta
superiore di oltre due terzi rispetto alla media dei paesi sviluppati, pari
nello stesso mese al 24,1 per cento.
Tutto questo mentre la cancrena
della disoccupazione dilaga senza particolari riguardi nemmeno per l’età. Dice
la Confartigianato nel suo studio basato su dati dell’Unioncamere e del
ministero del Lavoro che il numero di quanti erano rimasti a casa da oltre un
anno alla fine di giugno scorso risultava superiore di 911 mila unità a quello
del giugno 2008, quando la crisi è esplosa. L’aumento è del 114,6 per cento:
complice anche una crescita da 400 mila a 810 mila dei disoccupati di lungo
periodo under 35. Il che fa apparire ancora più avvilenti certe performance
degli uffici incaricati di mettere una pezza a una situazione così pesante.
Tanto avvilenti che il nuovo presidente dell’organizzazione degli artigiani,
Giorgio Merletti, scongiura il governo di astenersi anche soltanto dal pensare
«di attribuire altri soldi per uno strumento che esce bocciato dall’esame dei
dati, perché errare è umano ma perseverare diabolico. Piuttosto, destiniamo le
risorse straordinarie disponibili dal primo gennaio 2014 ai giovani che vanno
in azienda a fare tirocini o stage, anziché impiegarle per creare altri posti
inutili in quegli uffici pubblici».
Basta dire che soltanto il 2,2
per cento delle imprese italiane gestisce le assunzioni passando attraverso i
centri per l’impiego. Una quota infinitesima, di poco superiore rispetto a
quella degli annunci sulla stampa specializzata (1,5 per cento), e decisamente
inferiore a quella appannaggio di società di lavoro interinale e internet
(5,2), alle banche dati aziendali (24,4) e soprattutto alle segnalazioni di
conoscenti e fornitori che rappresentano il canale in assoluto più utilizzato
con il 63,9 per cento del totale. Per giunta, negli ultimi tre anni il peso di
questi centri è drammaticamente crollato. Dal 2010 a oggi è passato
infatti dal 6,3 a
poco più del 2 per cento. Al Sud, poi, è letteralmente inesistente: appena
l’1,1 per cento delle imprese si rivolge alle strutture pubbliche. In Calabria
siamo all’1 per cento. In Campania, Basilicata e Sicilia addirittura allo 0,8.
Calcolando il rapporto fra le 31.030 aziende che nel 2013 hanno utilizzato i
centri e gli 8.781 dipendenti di quelle strutture pubbliche materialmente
destinati alle attività di inserimento lavorativo, la Confartigianato arriva
alla conclusione che ciascun addetto segue un’azienda ogni tre mesi e dodici
giorni. Gestendo allo stesso ritmo da lumaca l’accesso al lavoro dei
disoccupati: uno a trimestre.
E con una spesa che è andata
crescendo in modo abnorme pure rispetto agli altri apparati pubblici. Negli
anni compresi fra il 2005 e il 2011 il costo per il personale dei servizi per
l’impiego è lievitato da 309 a 384,5 milioni di euro, con una progressione irresistibile: +24,4 per cento. Il triplo dell’incremento messo a segno dalle retribuzioni degli impiegati pubblici, salite invece complessivamente nello stesso periodo dell’8,3 per cento. Per non parlare della differenza enorme di produttività fra gli uffici del Sud e quelli del resto del Paese. Gli addetti nelle regioni meridionali sono ben 5.093, contro 2.099 del Centro, 1.503 del Nord Est e 1.336 del Nord Ovest, dove peraltro si riscontra il miglior livello di efficienza: se soltanto tutte le strutture funzionassero così, argomenta il rapporto degli artigiani, «per gestire gli utenti di tutti i centri italiani sarebbero necessarie 3.692 unità di meno». Con un risparmio quantificabile in 141 milioni di euro, cinque volte lo stanziamento al fondo per l’infanzia previsto dalla legge di stabilità.
Storia dell’emendamento di Pietro Ichino