E’ bizzarro pensare come il nostro sistema attuale sistema economico-produttivo riesca a fondere insieme gli svantaggi sia del comunismo che della società libera, senza averne i vantaggi.
Il problema è proprio nell’aver tentato, fallendo, di preservare il funzionamento del mercato (avendone intuito, almeno in parte, la grandiosa capacità di moltiplicare le risorse), volendo però a questo affiancare un tentativo (maldestro) di fare giustizia sociale.
Viviamo in sistema che, nelle sue specificità, è frutto della progettazione avvenuta tra gli anni 60 e gli anni 70, quando si era reduci da un ventennio di crescita impetuosa, in un contesto internazionale diverso che sotto molti aspetti ci favoriva, con piena occupazione, e popolazione crescente e giovane. L’idea che si affermò in quegli anni fu di sfruttare tale elevata crescita economica, prelevando da questa massa di risorse, e trasferendole su chi non era stato direttamente toccato dalla crescita; lo sviluppo, cioè, di un tipico sistema di welfare, volto a mitigare le disuguaglianze: l’estensione dei diritti, l’allargamento dei privilegi, il meccanismo pensionistico basato sul “chi lavora oggi paga la pensione a chi smette di lavorare”.
Questo ha portato nel tempo lo stato ad aumentare sempre più il proprio perimetro, cioè ad una estensione della spesa pubblica. Il meccanismo, però, incredibilmente funzionava, e questo fintanto che conservavamo un sistema produttivo efficiente, e fin quando il livello medio di ostacoli che lo stato poneva alle imprese si manteneva su livelli inferiori a quelli di altri paesi concorrenti
Col tempo, tale vantaggio competitivo (che si traduceva in una minore tassazione effettiva delle nostre imprese, complice il fatto che in larga parte del territorio c’era l’ordine di chiudere un occhio sull’effettiva quantità di tasse pagate; il che favoriva l’accumulazione) si è andato annullando, per poi tramutarsi in uno svantaggio competitivo; per le nostre imprese è diventato nel tempo sempre più difficile produrre in modo competitivo, gli ostacoli (fiscali, burocratici, legislativi ecc) sempre più insidiosi; per un certo periodo si è provato ad ovviare a questo problema, che si traduceva in un rallentamento drammatico della crescita (e quindi anche della capacità dello stato di metter le mani su altre risorse) mediante il debito pubblico (si spendeva più di quanto si incassava) e tramite svalutazioni competitive (che ogni volta davano un boost alle nostre imprese esportatrici, garantendo loro un certo periodo di agiatezza); quando ad inizio anni 90 non fu più possibile, a causa dell’entrata nell’euro, continuare con questi 2 sistemi (perdemmo il controllo sulla moneta, e non era più possibile fare deficit annuali a due cifre), i nodi vennero finalmente al pettine: si cercò di aggiustare il bilancio pubblico fino a farlo quasi convergere alla parità di bilancio (e questo non tagliando le spese, ma aumentando le entrate).
Fin quando si potè fare, però, si assunsero dipendenti statali (spesso in quantità inutili, al solo fine di dare lavoro alle persone), si elargirono privilegi, si aumentarono i diritti. Tutto questo all’improvviso si interruppe; chi c’è c’è, chi non c’è, beh, pace all’anima sua; il sistema produttivo nel frattempo si era inceppato (si veda l’andamento sostanzialmente piatto della produttività in italia dagli anni 90 in poi), capitolato sotto una selva di vincoli, di obblighi, di adempimenti stupidi, di tasse.
Ma quelli che erano dentro sono rimasti intoccabili, diritti acquisiti li chiamano…
Cosicchè, al giro di boa tra 2012 e 2013, ci ritroviamo in questa situazione: uno stato che espande i suoi tentacoli ovunque; che dove può interviene direttamente; dove non può, regolamenta, blocca, disturba, impedisce. Uno stato similsocialista nelle conseguenze, come vincoli e limiti che pone all’azione individuale; e perdipiù profondamente ingiusto, in quanto ha creato un un mondo a due corsie: quelli che beneficiano del suo operato (direttamente o indirettamente), e tutti quelli che ne sono rimasti esclusi; che dovranno aspettare che gli anni passino, ed i privilegiati di oggi a mano a mano vadano in pensione e finalmente muoiano.
In pratica ci troviamo di fronte ad un sistema che in teoria (ma solo in teoria) si presenta come assistenzial-maternalistico, che dovrebbe occuparsi dei bisogni di tutti; ma che, nei fatti, non lo fa; e chi è in difficoltà o riceve aiuto dalla sua famiglia, oppure si fotte; ma che non consente neanche ai singoli di badare con facilità ai propri interessi (come sarebbe in una società compiutamente libera), secondo la legge stabilita per primo da Smith secondo cui il miglior modo che un individuo ha per provvedere all’interesse generale è di badare e provvedere ai propri interessi, dato che li ostacola e li deprime continuamente.
Abbiamo gli svantaggi di una società comunista: l’assenza di libertà, uno stato invadente, la corruzione dilagante, una sostanziale situazione di servaggio nei suoi confronti, l’arbitrio totale del legislatore, l’impossibilità di muovere un dito senza mille autorizzazioni; manca l’unico vantaggio, cioè la tranquillità di chi ti assegni un lavoro, e ti dia almeno di cosa sopravvivere.
Abbiamo gli svantaggi di una società libera e di mercato: la necessità di competere con gli altri, l’incertezza delle posizioni (che non sono mai acquisite, ma sempre da riconfermare e riconquistare nel tempo), l’ingiustizia di una distribuzione iniqua di opportunità e risorse. Ma non ne abbiamo i vantaggi: la libertà, la volontarietà delle scelte, la grandissima capacità di creare opportunità e di aumentare nel tempo le risorse per tutti (cioè quel meccanismo grazie al quale oggi vivono sul pianeta 7 miliardi di persone, cifra pazzesca se solo ci pensate un attimo)
Viviamo in un sistema che è una vera schifezza; questa è la triste realtà. E che è diventato sempre più indifendibile, e che presto o tardi dovrà cadere, quando il numero di chi sarà rimasto escluso risulterà nettamente superiore ai pochi privilegiati.