Gli ultimi giorni di scuola

Da Marcello89
Ricordo persino l’odore che sembrava variare nell’aria della città quando gli ultimi giorni di scuola si alleggerivano sui vestiti e negli zaini. Ricordo di averli voluti assaporare fino alla fine, perché tutti mi dicevano che, guardandomi indietro, mi sarei pentita se non l’avessi fatto. Erano ore un po’ così, in cui in classe rubavamo tra i banchi qualche altro frammento di vita da condividere, consapevoli che difficilmente quei rapporti sarebbero durati col tempo. Un grande prof cercava di incoraggiarci per gli esami, continuando a ripetere che quello sarebbe stato solo l’inizio. E una frase che avrebbe dovuto rassicurare, invece, spaventava ancor di più. Non sapevamo, però, quanto fosse vero! Il colorito bianco dei nostri visi si confondeva con quelle t-shirt colorate e vorrei adesso poter tornare per un attimo, ma un attimo soltanto, ad allora e ritrovare quelle sensazioni così in contrasto tra di loro che neppure fingersi calmi e raccontarsi bugie serviva.
Ricordo la prima prova. Ho scelto la traccia libera perché non volevo limiti.  “Comunicare le emozioni”, s’intitolava.  La tecnologia che ha cambiato le abitudini dell’uomo, che si nasconde dietro un display, anziché aprirsi a quei brividi autentici che solo qualcuno in carne e ossa può regalargli. Sì, è vero. Ma ci sono anche emozioni che la protezione di un monitor aiuta a estrarre da dentro con meno fatica. E io, che avevo da poco aperto il mio blog, lo sapevo bene. Io che, proprio in quei giorni, tra Schopenhauer e l’Antigone, Fedro e la Luna, sul web stavo scrivendo le basi di quello che sarebbe stato poi “A un passo da te”.
E anche quelle erano emozioni. Luciano di Samosata nella versione di greco è stato meno impossibile del previsto, nonostante l’errore ministeriale che ormai quasi ogni anno sembra un déjà vu. Della terza prova, invece, pochi brandelli sono rimasti conservati nella mia mente: era già proiettata al 7 luglio, il giorno degli orali. E tutti a chiedere “cosa vuoi fare dopo la maturità?”, come se fosse il quesito più semplice a cui rispondere. E gli infiniti dubbi cercavo di nasconderli dietro certezze che non avevo.  Ricordo la domanda sul Somnium Scipionis, a cui, con convinzione, ho risposto, mentre il presidente della commissione ha contraddetto il mio aver dato la paternità dell’opera a Cicerone, perché secondo lui apparteneva a Leopardi. Ma io, che di Leopardi ne ero innamorata, ho insistito per avere ragione. E lui con me. Ho alzato gli occhi cercando conferma dalla prof di latino che stava udendo quell’eresia e, nell’incontrarli, ha abbassato il capo. E non scorderò mai quel momento di estrema confusione, rabbia e solitudine. Non so se ne fosse convinto davvero o intendesse solo provocarmi. So che volevo alzarmi e scappare via da lì, ma ho proseguito perché “quello sarebbe stato solo l’inizio”. Ho motivato la mia certezza e ho chiesto di poter proseguire con le altre materie. Dopo aver terminato, in fretta, ho abbandonato quell’aula per timore che la diga potesse non trattenere più la rabbia. Son passati anni da allora e certe sensazioni mi sembra di sentirle scorrere sulla pelle ancora oggi. Il sole s’intrufola dai vetri delle finestre e pizzica, quasi come allora.  Gli esami non sono finiti.  Ed è vero, quello è stato solo l’inizio!