«Il punto di vista espresso non rispecchia il modo in cui agiamo. Il successo dei clienti è il cuore del nostro business», risponde in puro stile Gekko il vertice di Goldman Sachs alle accuse lanciate da Greg Smith, dirigente “infedele” che ha affidate la sua abiura dalla finanza rapace alle pagine del New York Times. Ha fatto seguito una lettera ai dipendenti, firmata dall’amministratore delegato Lloyd Blankfein e dal direttore operativo Gary Cohn,. «Non siamo perfetti, ma rispondiamo in modo serio e concreto se emerge un problema, lo abbiamo dimostrato con i fatti anche durante la crisi finanziaria». Ma certo in un’azienda con oltre 30.000 dipendenti ci possono essere malumori e malcontento e in fondo «tutti hanno diritto ad avere un’opinione, ma è una cosa spiacevole quando uno parla a voce più alta del normale e dalle pagine di un giornale».
È una storia molto americana ed edificante la palingenesi, o il riaffacciarsi alla virtù, di uno dei bastardi di wall street, con una conversione morale di quelle che fanno sentire tutti più degni. E segna anche un auspicio per noi sfigati senza derivati. Quello che la resipiscenza del manager nasca dalla consapevolezza profetica che la rincorsa avida all’accumulazione sia mossa da un istinto suicida come tutte le spericolate sfide al limite: senza i freni della rispettabilità il perseguimento puramente egoistico dell’interesse potrebbe essere autodistruttivo.
Si sa il capitalismo aveva sempre avuto bisogno nella sua storia di una legittimazione etica. Senza la quale non avrebbe potuto penetrare dentro le mura della polis. Cattolicesimo, calvinismo, illuminismo, pietismo, utilitarismo, quante sono state le forme di assoluzione che si sono susseguite. Fino all’equilibrismo più disinvolto, quello del liberismo neoclassico che ha legittimato l’acrobatica evoluzione secondo la quale perseguendo con tenacia il suo interesse privato l’homo economicus produrrebbe il miglior risultato possibile in termini di benessere collettivo.
La verità è che secondo il pruriginoso senso somune – l’ipocrisia non ha latitudini - non è necessario che il mercante o il banchiere siano veramente motivato da convinzioni morali. L’importante è che si comporti come se lo fosse. E’ così la che mercatizzazione totale è diventata una ideologia, penetrando nelle coscienze e distruggendo quelle aree morali costituite da regole, principi, comportamenti, inibizioni, credenze, non importa se basate su autentiche convinzioni, ciniche convenzioni, o comodo conformismo.
Questo è vero più che mai in Italia. Non a caso la notizia della folgorazione sulle vie di Manhattan del manager pentito è passata quasi inosservata in Italia, dove alla presidenza del consiglio siede Mario Monti che e’ stato fino alla nomina e dal 2005 International Advisor per Goldman Sachs e precisamente membro del Research Advisory Council del “Goldman Sachs Global Market Institute”. Dal 2005, cioè dall’anno in cui la cupola della speculazione stava costruendo a tavolino la catastrofe economica mondiale.
È che vent’anni di berlusconismo ha tolto le inibizioni, cancellato le buone maniere, fatto evaporare certi ritegni che facevano sembrare incivile la povertà o la disoccupazione, grazie al disprezzo irridente nei confronti di quanto contrasti l’osservanza dell’ imperativo fondamentale: l’arricchimento. È diventata legittima, abituale, urbana, l’esaltazione esplicita dell’egoismo e dell’avidità come beni non strumentali ma finali, scopi della vita.
L’ondata di arricchimento spavaldo dei giocatori d’azzardo non si è esaurita con la crisi, anzi. E qui più che mai si sono contati a legioni i ricchi e corrotti disinvoltamente cinici, festosamente spregiudicati passati per le crune dell’ago tra l’entusiasmo del pubblico anche di noi straccioni, come se la marea di immoralità fosse non solo lecita, ma auspicabile, imitabile, ripetibile, lecita.
Forse siamo anche pervenuti fortunosamente all’ammirazione per i bricconi spietati: tra tanta incompetenza e approssimazione la rapacità professionale, tecnica, specializzata ci sembra un progresso. Forse ci siamo convinti senza ragione che chi è ricco non rubi per diventarlo sempre di più. La verità è che l’avidità è una passione incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità per lo più si avvita in un circolo vizioso di sistematico arricchimento. Fine a se stesso. È ciò che rischia di avvenire ora che la crisi che ha investito il sistema finanziario dei paesi capitalistici, sfociando in una rovinosa recessione. È probabile che il capitalismo superi anche questa crisi. Ma è anche possibile che non la superi se resta nel vortice del turbo capitalismo che lo ha travolto. E al quale i governi incaricati e fedeli stanno consegnandoci.
Non contiamo sulle denunce inascoltate dei pentiti, non stiamo a sentire le canzoni dei pianisti del Titanic, non è plausibile la speranza che ricostituiscano un equilibrio soddisfacente tra finanza ed economia reale. Ieri i lavoratori, i loro diritti, le loro aspettative sono stati svenduti nel gioco di scambio condotto da un’alleanza opaca e brutale. Certo egoismo e avidità non sono reati, ma crimini, si. E è consigliabile che almeno noi ci ribelliamo a un regime criminale.